Candyman, la recensione
<<Si racconta di me agli angoli delle strade, vivo nei sogni delle persone ma senza dover esistere>>.
Con queste parole Candyman descriveva se stesso e la sua condizione di leggenda metropolitana a Helen Lyle, la studentessa di antropologia interpretata da Virginia Madsen protagonista del classico del cinema horror diretto da Bernard Rose.
Era il 1992 e l’allora 32enne regista londinese dirigeva con Candyman – Terrore dietro lo specchio il suo primo successo commerciale portando, molto liberamente, sul grande schermo il racconto di Clive Barker The Forbidden, contenuto nel quinto volume dei Books of Blood.
Candyman è diventato presto un’icona del cinema dell’orrore sia per il suo originale background, sia per il suo essere l’unico boogeyman di colore tra i mostri del cinema horror, una celebrità che però non è riuscita a resistere al passare degli anni visto che il fantasma uncinato interpretato da Tony Todd, con soli altri due film tra cui un capitolo tre destinato al solo home video e di qualità agghiacciante, non è riuscito a competere con i ben più celebri Freddy, Jason, Chucky e compagnia bella. Però, capito il potenziale sociopolitico del personaggio, ci ha pensato il Re Mida del new horror hollywoodiano Jordan Peele a “resuscitare” Candyman con un film dedicato tanto alle nuove generazioni quanto a chi l’uomo con l’uncino l’ha visto nascere 30 anni fa. Con gran sagacia e intelligenza arriva nei cinema un nuovo Candyman, co-prodotto e co-sceneggiato da Peele e diretto da Nia DaCosta, futura regista di The Marvels.
Con estremo piacere constatiamo che Candyman 2021, nonostante il titolo privo di numerazione o sottotitoli, non è un remake o un reboot ma un vero e proprio sequel del primo film, ovviamente costruito in maniera tale da risultare fruibile anche a chi si approccia per la prima volta al franchise.
L’artista Anthony McCoy e la sua fidanzata Brianna Cartwright prendono in affitto un appartamento nel quartiere di Chicago Cabrini Green, in passato zona malfamata ma ormai al centro di un progetto di riqualificazione urbana che ne ha fatto uno dei quartieri più “in” della città. Alla ricerca di ispirazione per la sua nuova collezione di opere, Anthony se ne va a zonzo per il quartiere cercando di carpire la vera anima di Cabrini Green da riportare sui suoi dipinti, finché si imbatte casualmente nella leggenda di Candyman, che un tempo infestava le strade e terrorizzava gli abitanti ma ormai più nessuno sembra ricordare. Affascinato da questa tragica figura di un poveraccio accusato di delitti non commessi, linciato dalla folla e trasformato in un’icona dell’odio e dello scontro razziale, Anthony allestisce un’intera collezione dedicata a Candyman senza trascurare l’aspetto più folkloristico: si dice, infatti, che se si ripete cinque volte il suo nome davanti a uno specchio, Candyman si materializza per uccidere chi lo ha evocato. La notte stessa della prima della mostra di Anthony ben due persone muoiono davanti allo specchio: lo spirito di Candyman è tornato a mietere vittime?
Come può intuire chi ben conosce il personaggio di Candyman, al secolo Daniel Robitaille, nella sua tragica storia che lo ha trasformato in un mostro sanguinario c’è davvero del ghiotto materiale per il regista di Get Out – Scappa e Noi. Materiale sostanzialmente inespresso nei tre film precedenti, nonostante il bellissimo film di Bernard Rose avesse un importante substrato sociale e il secondo (che portava la firma addirittura di Bill Condon) approfondiva il passato umano di Robitaille mostrando le atrocità che aveva subito dai bianchi. Ma con il film di Nia DaCosta tutto cambia e viene approfondito proprio l’afflato sociale legato alla dissonanza razziale.
Un “mostro” afroamericano, protagonisti afroamericani, contesto afroamericano ma vittime prive di una differenziazione etnica. Candyman, uno e molteplice, diventa icona di un passato, un presente e probabilmente un futuro segnato dal sangue, il sangue di chi era ridotto in catene, veniva sfruttato nei campi, chiedeva parità di diritti ma vaniva bastonato e oggi è spesso vittima della violenza delle forze dell’ordine. Candyman si fa voce consapevole, potente, fragorosa del Black Lives Matter e il suo aleggiare tra le strade di Cabrini Green alimenta il ricordo di una città e uno Stato fondati sul sangue e sulla violenza, la stessa che in primis trasformò il mite schiavo ed artista Daniel Robitaille, che aveva l’unica colpa di essersi innamorato della figlia bianca del suo padrone, in un mostro colmo di rancore e con un uncino al posto della mano con cui dipingeva.
Ma Candyman 2021 non è solo un film horror “impegnato”, con un messaggio, è anche un ottimo film horror a prescindere. Innanzitutto, la curatissima regia di Nia DaCosta dà al film un tono di qualità artistica non sempre appannaggio del nostro genere preferito, un gioco di specchi – letteralmente – che sfrutta l’idea del riflesso come unico modo per scorgere l’orrore. Per la prima volta, Candyman agisce esclusivamente dentro gli specchi e utilizza le superfici riflettenti per mostrarsi agli occhi degli umani, dando così alla regista l’occasione per sperimentare inquadrature creative e giochi con la macchina da presa. Graditissimi e suggestivi anche i flashback realizzati con la tecnica delle ombre cinesi.
La componente più prettamente orrorifica esula da facili trucchetti da horror-cheap come gli inflazionatissimi jump-scares, ma si concentra sulla creazione della giusta atmosfera – coadiuvata da scenografie curate e mai banali – e diversi momenti creativi di omicidio che ne fanno anche il capitolo più gore dell’intera saga.
Nel cast si fanno apprezzare i due protagonisti Yahya Abdul-Mateen II (Manta in Aquaman e Cal Abar nella miniserie Watchmen) e Teyonah Parris (Monica Rambeau in WandaVision), ma anche alcuni graditi ritorni direttamente dal film originario come Vanessa Williams e Tony Todd.
Molto buona anche la colonna sonora di Robert Aiki Aubrey Lowe che comprende, ovviamente, anche il noto motivo composto da Philip Glass per il primo film.
Roberto Giacomelli
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