Il diritto di uccidere, la recensione
“In amore e in guerra tutto è lecito”, così recita un vecchio adagio popolare con il quale vengono descritti due campi accumunati dalla stessa spietatezza e dal ricorso a tattiche, anche se usate per finalità decisamente diverse. Ma è davvero così nel caso della guerra? E, soprattutto, c’è una linea di demarcazione tra le strategie militari e quel briciolo di umanità che resiste anche nell’animo del colonnello o capo di stato più determinato e pronto a dare battaglia al suo nemico fino all’ultimo?
Proprio su questi spinosi interrogativi si focalizza Gavin Hood che nel suo nuovo lavoro, dal titolo Il diritto di uccidere, racconta una tipica storia di guerra nella quale gli interessi politici, economici e di ideali vanno a toccare le vite di persone innocenti che, pur essendo all’oscuro di tutto ciò, ne pagano le conseguenze in maniera tragica.
Ciò che ne viene fuori è un thriller bellico ben riuscito, teso e capace di coinvolgere lo spettatore e allo stesso tempo invitarlo a riflettere su una questione che coinvolge la sfera emotiva di ognuno di noi.
La Gran Bretagna ha progettato un’operazione congiunta con gli Stati Uniti e alcune forze militari Kenyane per catturare una cittadina inglese che ha rinnegato la propria nazione per sposare la causa di un gruppo terroristico che ha base a Nairobi. Al comando c’è il colonnello Katherine Powell, il cui “occhio” sul campo è rappresentato da un drone guidato dall’ufficiale Steve Watts. La missione, tuttavia, cambia finalità quando viene fuori una verità agghiacciante: il gruppo di criminali si è riunito per preparare un attentato in Occidente. Diviene così obbligatorio passare subito ad una soluzione decisa e sganciare una bomba per far fuori i terroristi, ma la presenza di una bambina nelle vicinanze stravolge tutte le carte in tavola.
Negli ultimi anni i film sulla guerra si sono adeguati alle nuove tecnologie che prevedono l’utilizzo di droni e missili comandati da soldati seduti comodamente in una postazione al caldo e lontana dalle zone di combattimento, come accade nel recente Good Kill di Andrew Niccol. Eppure, nonostante questo trionfo di congegni elettronici di ultima generazione, il fulcro della storia non è altro che una “pagnotta” di pane. È attorno ad una ragazzina e la sua una bancarella, infatti, che Hood costruisce una storia caratterizzata da un ritmo incalzante e ben supportata da una sceneggiatura solida nella quale tutti i tasselli sono posizionati nei punti giusti e al momento giusto.
Ne Il diritto di uccidere funziona davvero tutto, dalla perfetta ricostruzione delle strategie militari al villaggio africano in mano ai terroristi, fino alla buona dose di suspense che accompagna i momenti decisivi, passando per la marcata vena di ironia utile a mettere in risalto il solito gioco dello “scarica barile” a cui danno vita i politici di turno che tutto vogliono tranne che prendersi la responsabilità di una decisione.
Dove però il lavoro di Hood perde colpi è nella superficiale caratterizzazione dei personaggi, piuttosto piatti, e la scelta di un cast che, eccezion fatta per il compianto e sempre bravissimo Alan Rickman (al suo ultimo film prima della prematura scomparsa), non si dimostra del tutto all’altezza del film. Helen Mirren, nei panni del colonnello Powell, ad esempio, offre una performance troppo carica e poco credibile, mentre Aaron Paul si limita a interpretare senza infamia e senza lode un soldato preso dai sensi di colpa senza tuttavia entrare in empatia con chi guarda.
Il diritto di uccidere, in conclusione si impone nel complesso come un prodotto interessante nel suo genere e ricco di spunti stilistici e morali non di poco conto.
Vincenzo de Divitiis
PRO | CONTRO |
Grade ritmo e una storia coinvolgente.
Buon mix tra thriller, dramma e commedia. Ottima ricostruzione delle tecniche militari. |
Scarsa caratterizzazione dei personaggi.
Cast poco all’altezza, escluso Alan Rickman.
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