Educazione fisica, la recensione

In un pomeriggio assolato, quattro genitori di tre studenti di terza media vengono convocati dalla preside nella fatiscente palestra della scuola. Non hanno la più pallida idea del perché sono stati convocati lì, in modo così insolito tra l’altro. Quando sopraggiunge la preside tutto diventa chiaro. Tutto diventa tristemente e pericolosamente chiaro. Franco, Carmen, Aldo e Rossella sono i rispettivi genitori di tre ragazzi che – sostiene la preside – hanno aggredito, immobilizzato e stuprato una loro compagna di classe. Uno stupro che, a detta della ragazza aggredita, sembra essere accaduto più volte e proprio in quella palestra isolata. I genitori faticano a credere alle parole della preside, tutto sembra assurdo fino a quando vengono messi di fronte ad un video che testimonia il triste accaduto. La preside è intenzionata a rivolgersi alle autorità. I genitori, al contrario, sono disposti a tutto pur di salvare la reputazione dei loro figli.

Presentato alla Festa del Cinema di Roma 2022, esce adesso nelle nostre sale Educazione fisica, opera seconda di Stefano Cipani che, nel 2019, aveva esordito dietro la macchina da presa con il fortunato e apprezzato Mio fratello rincorre i dinosauri.

Si dice spesso che l’opera seconda sia più difficile da realizzare rispetto alla prima, perché è quella che, in qualche modo, definisce l’essere del regista. Nell’opera prima è ancora tutto ammesso, mentre nella seconda c’è spazio solo per le conferme. Seguendo questa logica, non possiamo fare a meno di notare la smania di Stefano Cipani a voler alzare in qualche modo il tiro per confrontarsi con un racconto più maturo, sicuramente più ambizioso e inevitabilmente più rischioso.

Decide così di adattare per il grande schermo una pièce teatrale, ovvero La palestra di Giorgio Scianna, e “sporcarsi” le mani con il classico film che si regge quasi esclusivamente sulle performance attoriali. Perciò un dramma che si accende, divampa e si consuma nell’arco di novanta minuti di dialoghi serratissimi, in cui l’azione è (quasi) esclusivamente verbale e in cui tutta la tragedia è antecedente al narrato e perciò è possibile solo immaginarla.

Ma la voglia di Cipani a voler sedere al tavolo dei grandi si denota anche nella scelta del cast, questa volta composto esclusivamente da nomi risonanti nei confronti del grande pubblico, e dalla volontà di dirigere una sceneggiatura adattata per il cinema nientemeno che dai fratelli D’Innocenzo.

Ancora una volta viene scomodato Carnage di Roman Polański, film che dal 2011 sembra esser stato eletto come modello esemplare di un cinema colto in cui si può fare ottimo intrattenimento con poco, ovvero basta un valido script e una manciata di bravi attori.

Adesso non vogliamo discutere sulla bontà del film di Polański ma ci sembra piuttosto evidente che Carnage abbia fatto più male che bene al cinema moderno, incentivando questa malsana voglia di portare il teatro al cinema privando, di conseguenza, la Settima Arte di tutte le sue più squisite peculiarità.

Ovviamente non c’è nulla di male nel trasporre un testo teatrale sul grande schermo, basti vedere quanto ha saputo fare di recente Florian Zeller con i suoi due ottimi The Father e The Son, il problema emerge quando ci si adagia sulla natura teatrale del testo e non ci si prova nemmeno a far dialogare questo con la grammatica che è propria del cinema.

Ma torniamo a Carnage. Il corto-circuito si è venuto a creare nel momento in cui il film di Roman Polański è stato eletto a modello senza nemmeno capirne l’operazione. Con il suo adattamento cinematografico della piéce teatrale Il dio del massacro, Polański non voleva dimostrare la funzionalità del teatro sul grande schermo bensì avanzare un discorso sperimentale che contemplava un dialogo estremo tra due arti molto diverse fra loro. Il cinema e il teatro, per l’appunto. Ecco cos’era Carnage, un esperimento cinematografico (e qui l’autorialità dell’opera) che è durato ben due film e che si è evoluto e concluso con il film che il regista di Rosemary’s baby ha realizzato subito dopo, Venere in pelliccia, in cui il gioco sulla messa in scena teatrale si esaspera fino a fagocitare il cinema stesso.

Purtroppo, però, in tanti hanno applaudito Carnage senza capirci niente e questo ha dato il là a tante produzioni convinte che può davvero esistere il teatro sul grande schermo. A riprova di questo possiamo velocemente ricordare il francese Cena tra amici (uscito proprio l’indomani del film di Polański) da cui l’Archibugi ha tratto persino il remake Il nome del figlio, così come possiamo citare il film di Sergio Rubini Dobbiamo parlare che, al contrario di questi, non aveva nemmeno una pièce teatrale alle spalle.

Tutti film nati sulle orme di quell’opera di Polański ma pronti a coglierne solo l’essenzialità del racconto ignorandone completamente il senso sperimentale.

Adesso, undici anni dopo Carnage, si unisce alla lista degli emuli anche Educazione fisica e il più grande peccato è che anche Cipani, che è un regista di indubbio talento ed anche con un notevole gusto per la messa in scena, si limita ad approcciare il testo teatrale di riferimento in modo pigro e senza fare davvero nulla per impreziosire il racconto con le potenzialità proprie del mezzo cinematografico.

Claudio Santamaria, Raffaella Rea, Sergio Rubini, Angela Finocchiaro e Giovanna Mezzogiorno sono i nostri cinque e unici attori in scena. Le pedine di questo torbido dramma in cui non esistono reali fasci di luce.

Proprio come si faceva in Carnage / Il dio del massacro, anche in Educazione fisica / La palestra si indaga sulla natura più oscura degli esseri umani e si finisce per portare a galla una verità che ha del mostruoso: nelle situazioni davvero difficili, quando ci si sente minacciati e si è lontani dall’opinione pubblica, non esistono assolutamente gli eroi.

Stefano Cipani, sorretto dalla scrittura di Giorgio Scianna prima e dei fratelli D’Innocenzo dopo, porta avanti un discorso sulla mostruosità delle persone comuni che è indubbiamente interessante. Almeno su carta, infatti, la delineazione caratteriale dei quattro genitori appare molto convincente e funziona il modo in cui la mostruosità esplode nei personaggi gradualmente e in maniera persino inaspettata. Diverte, ma al tempo stesso spaventa, il modo in cui i quattro genitori sono pronti a corrompere la direttrice o a denigrare la vittima dello stupro pur di non far cadere sui propri figli la colpa del reato. Anche davanti l’evidenza, quando salta fuori il video che testimonia ogni cosa in maniera oggettiva, i quattro amorevoli genitori provano a giustificare e difendere i loro ragazzi convinti che quella sia la cosa giusta da fare.

E qui si apre un discorso molto interessante perché Educazione fisica, puntando il focus sull’atroce reato di stupro, non porta avanti un discorso d’accusa nei confronti degli stupratori bensì verso chi è ben disposto a coprire il reato. Dunque, un discorso che non prende di mira i giovani nell’era moderna, che seviziano per noia una loro compagna di classe e per diletto filmano anche l’accaduto, ma i genitori che preferiscono inveire verbalmente verso chi lo stupro l’ha ricevuto e verso chi prova a denunciarlo.

Come se non bastasse già la situazione di per sé, ad impreziosire ancor di più l’atmosfera marcia che si respira durante il film ci pensa l’intelligente idea di rendere i tre ragazzi del massacro tanto protagonisti della vicenda quanto assenti sulla scena. Mentre i genitori e la preside si confrontano aspramente all’interno della polverosa palestra, fuori da questa i ragazzi si sentono correre e giocare a pallone come se nulla fosse. Avvolti dalla luce accecante del sole ma anche da una paventata innocenza infantile che fa a cazzotti con il dramma di cui sappiamo e di cui si sono resi autentici protagonisti.

Un discorso indubbiamente interessante che purtroppo inizia presto a scricchiolare nel momento in cui entra in scena il quinto protagonista del racconto, la preside interpretata da una discutibile Giovanna Mezzogiorno, un personaggio che si palesa da subito come poco credibile e perciò fa perdere presto quota alla drammaturgia dell’opera. Una preside che si fa paladina della giustizia, che ha ricevuto personalmente la confessione della ragazza aggredita e che sa dell’esistenza del video-testimonianza. In questa posizione risulta davvero implausibile che questa, anziché andare direttamente a denunciare l’accaduto, preferisce perdere tempo a convocare – nel luogo del reato, tra l’altro – i quattro genitori con il rischio di peggiorare le cose, andando incontro ad un’inevitabile occultamento delle prove.

Ma è finzione. È teatro che si fa cinema e quindi, di conseguenza, possiamo stare al gioco e su questo essere disposti a chiudere un occhio in favore dell’intrattenimento.

Il secondo campanello d’allarme è comunque legato al primo, ovvero la performance attoriale della Mezzogiorno, a cui seguono comunque anche quella di Santamaria e della Finocchiaro. In un film come Educazione fisica, in cui per la stessa natura dell’opera si fa centrale il ruolo dell’interprete, è inconcepibile trovare attori poco credibili che fanno perdere veridicità al dramma. Perché, così facendo, viene meno proprio l’utilità dell’opera stessa.

Tanto Giovanna Mezzogiorno quanto Claudio Santamaria, e parzialmente anche Angela Finocchiaro, si perdono in un overacting continuo, un eccesso di recitazione enfatica che conduce presto il dramma verso la macchietta più insopportabile con la conseguenza di far sentire lo spettatore persino smarrito.

Quali sono le reali intenzioni dell’autore, dunque? Come bisogna guardare Educazione fisica? Il film vuole essere un dramma o una commedia? Perché tutto, ma proprio tutto, ci porta a pensare di essere dalla parte del dramma ma le interpretazioni sono così cariche e finte che, a volte, è proprio impossibile pensare di prendere sul serio la vicenda. E non ci si può nascondere nemmeno dietro la scusante della black comedy perché, di questo sottogenere, Educazione fisica ne ignora completamente le regole.

Più il dramma si infittisce e più questo eccesso di recitazione prende piede, fino ad abbracciare persino un momento “action” che sfocia in un comico involontario così alto da generare davvero un sano imbarazzo in chi sta guardando.

Solo Sergio Rubini e Raffaella Rea provano a tenere in piedi il dramma dosando le loro interpretazioni e conferendo un po’ di sana serietà alla vicenda. O al contrario, se l’idea era quella di mettere in piedi una commedia sui generis, allora sono proprio Rubini e Rea a rovinare il tutto con le loro performance più misurate.

Insomma, a causa di una recitazione ballerina che getta davvero tanta confusione sul racconto, Educazione fisica è un film che convince solo a metà. Stefano Cipani, come si diceva in apertura, è un regista dotato di buon gusto nella messa in scena e così riesce a donare al suo film un’estetica molto accattivante grazie ad un prezioso lavoro svolto sulla scenografia da Ivana Gargiulo e dalla fotografia firmata da Fabio Cianchetti. Una palestra fatiscente e sgradevole e la fotografia satura e dai toni acidi fanno di Educazione fisica un film dal look tanto moderno quanto internazionale. E questo è già un dato che non bisogna sottovalutare.

Una maggior intelligenza sul casting (magari qualche attore più fresco e meno stantio) e una regia più attenta alle dinamiche cinematografiche avrebbero potuto rendere Educazione fisica un prodotto davvero notevole che non necessitava d’essere venduto come il Carnage italiano per far suonare qualche campanello d’interesse.

Giuliano Giacomelli

PRO CONTRO
  • Un discorso molto interessante determinato a giudicare e punire non gli artefici di un reato bensì chi è disposto a coprirli.
  • Una messa in scena accattivante grazie ad un lavoro molto attento di fotografia e scenografia.
  • Non tutte le interpretazioni convincono e infastidisce l’overacting continuo della Mezzogiorno e di Santamaria.
  • Un momento drammatico, piazzato a metà film, riesce a strappare più di qualche risata involontaria.
  • Troppa confusione sul tono del film
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