Frankenstein, la recensione

Nel 1818 vedeva per la prima volta pubblicazione il romanzo Frankenstein (o Prometeo Moderno), l’opera che avrebbe portato alla notorietà l’allora giovanissima Mary Shelley. Il romanzo era inizialmente anonimo, attribuito all’autrice inglese solo con la prima ristampa del 1823, in seguito al crescente interesse che quell’anomalo e macabro racconto di fantascienza ante litteram aveva suscitato negli ambienti letterari. Ma Frankenstein non è rimasto un caso “recluso” alla carta stampata, diventando subito di grande interesse per il cinema fin dagli albori. È del 1910, infatti, la prima trasposizione cinematografica del romanzo della Shelley, seguita dal celeberrimo lungometraggio diretto nel 1931 da James Whale per la Universal Pictures e interpretato Boris Karloff, che gli conferì l’iconico look. Da allora si sono susseguite centinaia di trasposizioni cinematografiche e televisive, dalla mitica saga della Hammer Film con Peter Cushing alla rilettura della serie tv Penny Dreadful, passando per il Frankenstein di Kenneth Branagh con Robert De Niro nei panni del Mostro.

Vista tale abbondanza di “materiale filmico” su Frankenstein, ogni volta che viene annunciato un nuovo progetto su tale storia ci chiediamo se davvero ne valga la pena ribadire l’ovvio e in questi ultimi mesi sono ben due i Frankenstein che arrivano sul grande schermo: quello in salsa steampunk con Daniel Radcliffe e James McAvoy (Viktor – La vera storia di Frankenstein) e quello d’ambientazione contemporanea diretto da Bernard Rose.

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Ben noto al pubblico del cinema horror per aver diretto quel gioiellino di Candyman – Terrore dietro lo specchio, Bernard Rose si è allontanato dal cinema dell’orrore per dedicarsi a trasposizioni tolstojiane per tornare al thriller con SX Tape nel 2013 e ora a Frankenstein (o FRANK3N5T31N, come è alternativamente titolato). La spinta che ha fatto cimentare Rose con l’opera della Shelley è l’idea di entrare direttamente nella mente del Mostro e non raccontare i fatti dal punto di vista dello scienziato, come solitamente accade. Il suo Frankenstein, infatti, è interamente mostrato dalla prospettiva della Creatura, che è anche voce narrante della storia, così possiamo percepire la confusione di un essere che non sa perché è al mondo, possiamo sentire il suo dolore nel non essere accettato e la curiosità per una realtà che impara a conoscere a poco a poco, come se si trattasse di un bambino appena nato.

L’altra novità – che è novità solo relativamente – è abbandonare l’atmosfera gotica e l’ambientazione europea ottocentesca per immergere la vicenda nella Los Angeles odierna, per di più nei bassifondi della città, tra reietti, senza tetto e prostitute.

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Viktor (Danny Huston) ed Elizabeth (Carrie-Ann Moss) Frankenstein si dedicano alla creazione della vita nel loro laboratorio alla periferia di Los Angeles. I due stanno sperimentando un’innovativa tecnica di creazione di organi e cellule vive attraverso una bio-stampante 3D. Dopo diversi tentativi non andati a buon fine, riescono a creare un uomo, che battezzano Adam. La Creatura si comporta come fosse un bambino appena nato e ha l’imprinting con Elizabeth, a cui si affeziona in maniera quasi morbosa. Con il passare dei giorni il tessuto di Adam però comincia a deteriorarsi, come se le sue cellule avessero un ciclo vitale molto breve, sviluppando tumori e pustole su tutto il corpo dell’uomo, fino a un improvviso arresto cardiaco. Gli scienziati si sbarazzano del corpo di Adam, ma lui in realtà non è morto e comincia a vagare per le strade di Los Angeles scoprendo, per lo più, la violenza di una città che non accetta chi è diverso.

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È interessante notare come la Creatura di questo Frankenstein non rappresenti la morte, non è un cadavere rianimato, ma una vita creata dal nulla, accentuando ancor di più quell’aspetto di carattere etico che ha sempre caratterizzato l’opera della Shelley, in cui l’uomo si sostituisce alla divinità. Dunque, vista la procedura di creazione, non avrebbe avuto senso un aspetto mostruoso per la Creatura, è chiaro che i creatori avessero in mente di dar vita a un essere perfetto. Così Adam ha un aspetto gradevole, a cui presta le sembianze Xavier Samuel (Shark 3D, Fury), e presenta un comportamento simile a quello di un neonato: per questo motivo può essere indottrinato e istruito da zero, senza che un cervello preso chissà dove possa interferire con la riuscita dell’esperimento.

Ovviamente, visto che parliamo di un film horror e neanche dei più teneri, Bernard Rose sa che non può presentare al suo pubblico un Mostro che ha l’aspetto di un modello e così il tessuto organico di cui Adam è composto comincia a putrefarsi in maniera piuttosto repentina, mostrando così una delle creature di Frankenstein più genuinamente repellenti mai viste al cinema.

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Se nella mente di Adam c’è costantemente l’immagine di Elizabeth Frankenstein, ovvero l’ex Trinity di Matrix Carrie-Ann Moss, con il quale ha un rapporto filiale ma freudianamente ambiguo, è tutta una serie di personaggi incontrati nel suo cammino nella metropoli a forgiarne il carattere violento, spesso involontariamente omicida. Dal poliziotto corrotto che lo picchia ripetutamente, alla prostituta con cui vorrebbe imparare ad amare, passando per la bambina a cui causa quasi un annegamento e il senza tetto cieco, che qui ha l’aspetto di Tony Todd, che con Rose aveva già condiviso il set di Candyman nel ruolo del boogeyman protagonista.

Con un look molto underground che richiama certo cinema low budget degli anni ’90 (e infatti anche Frankenstein è stato realizzato con pochissimi mezzi, basti vedere come Bernard Rose sia coinvolto praticamente in ogni settore, anche tecnico), il film non lesina certo in violenza, mostrandoci un teatrino gore, che sfocia spesso nello splatter, di notevole caratura e capace di fare la felicità del più accanito horrorofilo.

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Un film che comunque non è esente di difetti, per quanto sia generalmente ben riuscito. Difetti che trovano il loro apice nella sceneggiatura – firmata da Bernard Rose – che presenta poca cura nella scrittura dei dialoghi e alcuni buchi macroscopici che fanno a cazzotti con la logica, come la scena in cui Adam (che vi ricordiamo è appena venuto al mondo e ha le capacità cognitive di un bambino molto piccolo) riesce a muoversi e giungere alla sua méta con il gps di un telefono cellulare.

Siamo comunque a livelli molto buoni per lo standard attuale delle produzioni horror, un film dal sapore autoriale che comunque ha ritmo e una presa grandguignolesca molto accentuata, richiamando alla mente certo cinema del terrore povero di mezzi ma ricco di idee che sempre più raramente si vede in sala.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Pur trattandosi di una storia già portata più volte al cinema, ci sono diverse idee nuove che vale la pena scoprire.
  • Molto gore… e per un horror questo è un gran bene!
  • Alcuni difetti di sceneggiatura.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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