Fuga di cervelli, la recensione
Emilio è un ragazzo timido ed impacciato. Sin da quando era bambino è innamorato della bellissima Nadia, ma nonostante tutto non è mai riuscito a dirle cosa prova realmente per lei. Un giorno, quando sembra aver trovato il coraggio per esternare tutti i suoi sentimenti, Emilio scopre che Nadia sta per trasferirsi in Inghilterra perché ha vinto una borsa di studio ad Oxford. Distrutto per la spiacevole notizia, non è ancora detta l’ultima per Emilio che può contare sull’aiuto dei suoi quattro amici, tanto idioti quanto carichi di entusiasmo. Una volta riusciti a convincere Emilio che è troppo giovane per rinunciare ad un sogno d’amore, falsificano documenti e diplomi così da riuscire ad ottenere tutti l’iscrizione ad Oxford. I cinque dementi sbarcano in Inghilterra e, tra equivoci e situazioni deliranti, Emilio sarà messo di fronte all’unica occasione per dichiarare il suo amore a Nadia.
La febbre del remake sta ormai dilagando anche in Italia e Fuga di Cervelli ne è l’ennesima testimonianza. Prodotto da Maurizio Totti e Alessandro Usai per la Colorado Film, in collaborazione con Medusa che porta l’opera nelle sale, il film altro non è che il remake della commedia spagnola Fuga de Cerebros che nel 2009 ha riscosso quel giusto successo da farla divenire un vero e proprio caso cinematografico nella penisola iberica.
Il film segna il debutto alla regia del comico toscano Paolo Ruffini che, oltre a prendere il posto dietro la macchina da presa, si prende la briga di riadattare la sceneggiatura e di interpretare uno dei protagonisti del film, il simpatico Alfredo, migliore amico di Emilio che non accetta l’idea di essere completamente cieco. Per l’occasione Ruffini decide di portare in scena un cast del tutto singolare che potrebbe suonare come un azzardo a tutti gli effetti: nessun vero professionista della risata davanti la macchina da presa, piuttosto un manipolo di giovanissimi talenti (affermazione opinabile) che negli ultimi tempi hanno saputo farsi notare, diventando per ignote ragioni dei veri e propri fenomeni mediatici, sia in televisione che sul web come youtubers.
A dominare le scene, dunque, oltre allo stesso Paolo Ruffini possiamo trovare due fra i personaggi più amati del web, Fank Matano e Guglielmo Scilla in arte Wilwoosh. A fare squadra con loro anche Luca Paracino e Andrea Pisani, ossia l’apprezzato duo comico I PanPers famoso sul piccolo schermo grazie alla trasmissione di cabaret “Colorado”. Confinati solamente in piccoli camei, attori di ben altro calibro come Marco Messeri e Biagio Izzo.
Una nuova tipologia di “talenti”, rivolta sicuramente ad un nuovo tipo di “spettatori”. Questi nuovi “divi”, privi di reali capacità, hanno trovato attraverso il mezzo YouTube il modo di entrare comunque a testa alta nel mondo dello “star system” probabilmente consci del fatto che stiamo parlando di probabili fuochi di paglia. Eppure Paolo Ruffini riesce a dirigerli e guidarli forse in una giusta direzione, la sola possibile, e dimostra di sapere come tirare fuori quel poco che di buono c’è in loro.
Con Fuga di Cervelli Paolo Ruffini porta in scena sul grande schermo una tipologia di commedia abbastanza insolita per il nostro cinema, soprattutto per quello di oggi. A metà strada fra un Porky’s e La rivincita dei nerd, il film in questione si nasconde dietro una struttura narrativa praticamente inesistente puntando tutto su stereotipi vecchi ed abusati e su una comicità del tutto volgare che non si sforza in nessun momento di trovare la gag ricercata ma preferisce abbandonarsi alla facile ilarità che può scaturire (ancora oggi che siamo nel 2013) da una scoreggia. Un modo di far comicità molto ingenuo, dunque, quasi paragonabile a quello che aveva Alvaro Vitali negli anni ’80 quando impazzavano i film di Pierino. Eppure il film manifesta una costante consapevolezza di viaggiare su standard molto bassi, non ha alcun tipo di “ambizione”altra e ciò lo conduce in rari casi ad essere visto persino con simpatia, o meglio ancora con tenerezza, come quando ci si ritrova a guardare uno spettacolino di cabaret che non fa ridere ma che comunque non annoia.
I momenti davvero divertenti sono pochi e l’umorismo, per quanto becero, diventa di tanto in tanto anche cinico e scorretto, all’insegna di una comicità che non si preoccupa in alcun momento di essere politicamente corretta.
Giuliano Giacomelli
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