Into the Dark: In carne ed ossa, la recensione

Prosegue il nostro viaggio all’interno di Into the Dark, la serie antologica targata Blumhouse destinata al circuito televisivo, recentemente distribuita in Italia da RaiPlay. Una serie di lungometraggi slegati tra loro, dodici (a stagione) come i mesi dell’anno, il cui unico punto in comune è quello di svolgersi durante una ricorrenza.

La seconda tappa di questo percorso risponde al nome di Flesh & Blood (In Carne ed Ossa), diretto dal canadese Patrick Lussier, una carriera iniziata come montatore (incluse svariate collaborazioni con un signore dell’Horror come Wes Craven) per poi passare dietro la macchina da presa con alterne fortune con titoli come la trilogia di Dracula 2000 oppure San Valentino di Sangue e Drive Angry.

La ricorrenza sullo sfondo di Flesh & Blood è la festa del Ringraziamento. La storia racconta di Kimberly, una diciassettenne afflitta da agorafobia in seguito alla morte della madre, vittima di un omicidio ancora irrisolto. La ragazza, quindi, non esce mai dalla casa in cui vive col padre ed in cui riceve solo le visite settimanali della psicoterapeuta. La situazione si complica nel momento in cui Kimberly inizia a sospettare che il padre abbia una pericolosissima vita segreta.

flesh & blood

Partiamo subito col dire che l’inserimento della ricorrenza è pretestuoso, attaccato praticamente con lo sputo, non ha il minimo peso all’interno di una sceneggiatura probabilmente scritta in precedenza ed utilizzata per l’occasione. Nel prologo vediamo un flashback con la famiglia ancora al completo e felice intenta a consumare la cena del Ringraziamento, dopodiché la vicenda si sposta di un anno nello stesso periodo di festa. Ma questo è il male minore, tolta la mancata suggestione di fondo resta un ‘non problema’ ininfluente in uno script che, invece, di problemi veri ne ha altri.

Già, perché il punto debole si rivela proprio la sceneggiatura di Louis Ackerman, all’esordio su un lungometraggio e probabilmente a corto di malizia ed esperienza. L’intero meccanismo narrativo avrebbe dovuto ruotare intorno al dubbio sulla figura del papà, giocare con lo spettatore insinuandogli costante incertezza sulla sua (eventuale) doppia vita e sul reale esito della questione. Si poteva alimentare l’interrogativo quanto meno fino al terzo atto, palleggiando i comportamenti ambigui tra innocenza e colpevolezza. E invece niente, la situazione è esattamente quella che sembra, chiara quasi subito, con Kimberly che conduce la sua indagine personale in tempi record convincendosi di un qualcosa che, per quanto più o meno palese, avrebbe dovuto essere messo un minimo in discussione da diciassette anni di rapporto padre/figlia; voglio dire, se sospettassi che mio padre è un serial killer cercherei ogni ragionevole certezza, non dico di beccarlo col coltello insanguinato tra le mani ma qualcosa del genere.

flesh & blood

Per cui la scelta (sbagliata) è quella di optare per una piatta linearità di una storia che procede esattamente come ti aspetti che faccia, senza svolte, senza colpi di scena. Non c’è tempo per nutrire un sospetto, manca un’ambiguità che sarebbe stata funzionale ad un racconto di questo tipo, il quadro è monotonamente limpido.

Se si ha la sfiga di beccare uno script poco ispirato non resta che augurarsi che al timone ci sia un regista di personalità capace di ravvivarlo con qualche sterzata di carattere. Evidentemente non è il caso di Patrick Lussier. Dal punto di vista tecnico, il canadese offre una prova anche sufficiente, una regia pulita, indovina la soluzione visiva per rendere percepibile l’effetto dell’agorafobia sulla psiche di Kimberly, capitalizza quella che di fatto è l’unica location (la villa) facendo buon uso degli ambienti (e degli anfratti) dipingendola alla stregua di una grande trappola senza uscita. Quello che gli manca, appunto, è la personalità necessaria a dare spessore ad una situazione che scorre in maniera fin troppo lineare, senza mai raggiungere un vero apice di tensione, di suspense. Una storia che collega punto A e B nel modo più elementare possibile.

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Nonostante un contesto non brillantissimo, i due protagonisti tutto sommato non sfigurano e, ovviamente, non hanno la responsabilità della mancata riuscita dello stesso. La giovane Diana Silvers trova il giusto compromesso tra la fragilità emotiva del lutto (e del trauma) e la reazione decisa di chi lascia finalmente spazio al proprio spirito di sopravvivenza. Non a caso, il nuovo dramma sarà la chiave di volta per smaltire le scorie di quello precedente. Il ruolo del padre va a Dermot Mulroney che per qualche motivo mi capita di confondere con Dylan McDermott, sto chiaramente divagando ma l’idea di un crossover Dermot McDermott mi era sembrata più divertente della visione a cui stavo assistendo. Tornando seri, Mulroney, dicevo, pesca in un repertorio piuttosto standard per il suo personaggio, nulla che non si sia visto decine di volte in situazioni più o meno simili, un compito che comunque l’attore svolge con diligente professionalità.

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Insomma, Flesh & Blood non è certo il miglior modo per imbottire il tacchino del Ringraziamento. Un thriller dall’anima femminista – cast composto da quasi tutte donne con un unico personaggio maschile, indovinate chi è il cattivo? – con elementi da survival e home invasion in cui tutto è troppo telefonato. Una trama che colpevolmente rinuncia a priori a solleticare lo spettatore e non prova nemmeno a compensare con un po’ di sana violenza sia fisica (si segnala solo uno sgozzamento) che psicologica tipica della categoria.

Francesco Chello

PRO CONTRO
  • Le soluzioni visive per rappresentare l’agorafobia.
  • Il modo in cui vengono sfruttati gli spazi ristretti dell’unica location.
  • Trama telefonata, meccanismo narrativo troppo lineare.
  • Assenza di ambiguità e colpi di scena, tutto è esattamente ciò che sembra.
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