La vita straordinaria di David Copperfield, la recensione

Spesso, scrivendo recensioni delle prossime uscite cinematografiche, servirebbero competenze ben più complesse della conoscenza della macchina cinematografica e della nobile arte della scrittura. La tendenza documentaristica che, nonostante un genere dedicato e florido, si è insinuata nelle maglie dell’intrattenimento sul grande schermo pone sempre più spesso domande apparentemente fuori luogo: è corretto che in un film sulla Londra ottocentesca il protagonista sia un attore indiano? È coerente con la materia trattata che la multiculturalità di un cast sia un riflesso del presente e non di una veridicità storica?
Probabilmente la sede più adatta a questioni di questo tipo sarebbe di natura accademica, in cui analizzare fonti e documenti del passato per ottenere la risposta corretta, ma la presenza di interrogativi di questo tipo è un sintomo da non sottovalutare. La vita straordinaria di David Copperfield è l’nesimo twist del capolavoro di Charles Dickens e il malato in questione. Se la trama è necessariamente nota in un modo o nell’altro, la novità del film di Armando Iannucci è dettata da un ritmo e da un tono recitativo che evita lo scimmiottamento e la copia carbone dell’opera letteraria ottocentesca spostando l’interesse su come venga invece messa in discussione esteticamente. Stacchi, snodi e volta-pagina sono affidati alle invenzioni di Iannucci in regia e all’estro di un cast di tutto rispetto (ci sono insieme Dev Patel, Tilda Swinton, Hugh Laurie, Ben Whishaw, Peter Capaldi e Benedict Wong) in una narrazione diesel che convince sempre di più con lo scorrere dei minuti.
E l’inghippo? E il però? Pur non conoscendo i personaggi, pur non avendo mai letto Dickens, pur non conoscendo la “bianca” Inghilterra, come fa il film a funzionare stravolgendo lo spirito del tempo? Cosa suggerisce, a chi guarda, un comparto attori rispetto alla realtà londinese? Siamo di fronte ad una rivincita storica sulle ingiustizie sociali perpetrate da noi stessi per secoli o ad una scelta di merito operata in base alle necessità di Iannucci? Tradire per sintonizzarsi con il sentire contemporaneo o traslare degli assoluti nei migliori interpreti a disposizione? C’è ne è per tutti i gusti e per tutte le tasche, con sfumature che cambiano il giudizio complessivo sull’intero film.
Resta il fatto che Iannucci ha portato a casa un film di tutto rispetto, con un Dev Patel estremamente credibile, che rinvigorisce visivamente un racconto lungo quasi duecento anni in una sorta di realismo magico cinematografico e stempera lo stile di un tempo a noi estraneo in un tono brioso che non sconfina mai nell’eccesso.
Andrea De Vinco
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