L’uomo che vide l’infinito, la recensione

La matematica non è poi così noiosa sul grande schermo. Almeno non lo è nei biopic degli ultimi anni come A Beautiful Mind di Ron Howard e The Imitation Game di Morten Tyldum.

L’uomo che vide l’infinito, diretto da Matt Brown, racconta la storia vera del genio indiano della matematica Ramanujan (Dev Patel) che, da completo autodidatta, lascia l’India e arriva alla Trinity College di Cambridge, dove incontra il professor Hardy (Jeremy Irons).  

Salta subito alla mente un altro biopic recente che aveva come protagonista un famoso matematico: stiamo parlando de La teoria del tutto che, due anni fa, ha portato alla vittoria dell’Oscar e alla notorietà mondiale l’attore Eddie Redmayne. Raccontare la storia vera di un famoso studioso osservandolo in quanto uomo (fotografare i suoi sentimenti e non la sua mente) è l’obiettivo di entrambi i film, ma “L’uomo che vide l’infinito non ottiene quello che era riuscito così bene al suo predecessore.

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Il desiderio del regista, e probabilmente del libro di Robert Kanigel (da cui il film è tratto), traspare ma non viene sufficientemente centrato: la pellicola non vuole spiegare la matematica delle partizioni, ma un’amicizia intensa tra Ramanujan e il professor Hardy. Si mettono a confronto due modi diversi di intendere la matematica, la scienza e, per estensione, la vita; questo rapporto, però, avrebbe dovuto occupare la maggior parte del film per essere sufficientemente argomentato. Al contrario, si è deciso di circondare i protagonisti di personaggi secondari che distraggono da tale obiettivo (molto tempo è dedicato a un amore a distanza e al conseguente lungo carteggio ostacolato da un mostro di suocera).

La sceneggiatura è divisa in una serie di blocchi e sotto temi in cui i protagonisti rimangono in balia di molta approssimazione: c’è tempo per la guerra, per raccontare la dura vita del vegetariano agli inizi del secolo, per le bombe, per amici che vanno e vengono e anche per qualche botta che dà sempre un po’ di colore.

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È chiaro che nel 1913 i pregiudizi erano tanti e il razzismo era presente ad ogni angolo, ma il film non si è concentrato a fondo sul perché questi due uomini, contro le opinioni di tutti, sono riusciti ad andare avanti e portare a termine il loro lavoro. L’uomo che vide l’infinito sembra avere una posizione data per assodato con i suoi personaggi, come se ognuno di essi fosse quello che è senza bisogno di alcun tipo di spiegazione (perché il professor Hardy è così indie e progressista?). I dialoghi non sono ben equilibrati: nel finale, il rapporto tra il giovane e il professore raggiunge un sentimentalismo inspiegabile ed eccessivo, la moglie di Ramanujan ha meno battute del simpatico cameriere del professore, e lo stesso genio della matematica sembra comportarsi con poca chiarezza di fondo. Nel corso del film, le tematiche si allargano al rapporto tra fede e scienza, e al confronto diretto tra razionalismo della cultura occidentale in opposizione ad un’ignota cultura orientale: gli intenti sono tanti, troppo pretestuosi per un tempo narrativo mal gestito.

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Il professore interpretato da Jeremy Irons risulta il carattere migliore della pellicola, e, con le sue battute taglienti e il suo acume, riesce a rendere dinamica la narrazione che imprigiona anche lo stesso Dev Patel in una maschera dai tratti uniformi.

Da come si veste non direi che è così intelligente” rimproverano a Ramanujan.

Nella storia della matematica, Ramanujan si è preso una grande rivincita sulla xenofobia e su tutti quelli che non credevano nelle sue capacità. Nella storia del cinema, questo biopic, classico eppure pasticciato, non gli ha reso la giustizia che meritava.

Matteo Illiano

PRO CONTRO
  • Jeremy Irons è, senza dubbio, la cosa migliore del film.

 

  • Privo di guizzi artistici sia a livello registico che di sceneggiatura.
  • L’amicizia tra i due protagonisti non ha i giusti spazi e tempi (necessari per renderla psicologicamente credibile).
  • Sentimentalismo e pathos degenerano nel finale.
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