Margini, la recensione
Grosseto, 2008. Un capoluogo di regione che sembra una provincia. Una piccolissima provincia addormentata in cui non succede mai nulla. Un luogo piccolo, in ogni senso, in cui tutti si conoscono e nessuno sembra avere reali ambizioni. Nessuno tranne Michele, Edoardo e Iacopo, tre ragazzi neanche trentenni che vivono intrappolati nel mito della musica punk. Hanno messo insieme una band, i Waiting for Nothing (che è tutto un programma!), e sognano tutti insieme di poter sfondare nel mondo della musica. Ma se si hanno questi sogni di gloria, Grosseto non può che essere un paesotto che sta stretto poiché le uniche occasioni che offre per esibirsi sono le deprimenti feste dell’Unità e qualche locale scalcagnato privo di pubblico. Persa quella che sembrava essere l’occasione della loro vita, aprire a Bologna il concerto di una band hardcore straniera, Michele, Edoardo e Iacopo vengono assaliti da un discutibile colpo di genio: portare la band straniera – i Defense – a Grosseto e organizzare a spese loro il concerto più ribelle che sia mai arrivato in città. Una buonissima idea, peccato che i tre amici non hanno né le possibilità economiche né le capacità per organizzare un concerto del genere.
Presentato pochi giorni fa alla SIC – Settimana Internazione della Critica durante la 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Margini è una commedia punk di Niccolò Falsetti e Francesco Turbanti, un film in cui i due cineasti si dividono i compiti con il primo che si occupa di firmare sceneggiatura e regia mentre il secondo, oltre alla sceneggiatura, scende in campo nel ruolo di uno dei tre protagonisti (il più carismatico del trio, Michele).
Prodotto da Disparte, in co-produzione con Manetti Bros. Film, Margini è un esordio nel lungometraggio che si porta dietro tutte quelle problematiche che ostacolano la piena riuscita di molte opere prime ma, al tempo stesso, è anche un film che riesce ad esprimere una carica artistica e una tale voglia di mettersi in gioco che indubbiamente suscita simpatia in chi guarda.
Non ci vuole molto ad immaginare i tre giovinastri punk disperati a Grosseto come sinceri e diretti alter-ego di Niccolò Falsetti e Francesco Turbanti che, disperati alla stessa maniera, provano a fare il salto più lungo della gamba, uscire dal sottobosco delle produzioni digital (Niccolò Falsetti è uno dei membri del noto collettivo di filmmakers ZERO) e muovere i primi passi in un sistema cinematografico dal respiro mainstream.
Potremmo definire Margini come un bizzarro film auto-biografico in cui, appunto, Falsetti e Turbanti traslano le loro ambizioni cinematografiche a quelle musicali di tre ragazzi che non si sentono compresi dal loro ambiente sociale. Tre giovani disposti a tutto, ma davvero a tutto, pur di dimostrare al mondo intero – ma in primis alla loro città che li ha sempre messi all’angolo – che avevano ragione loro. Che hanno sempre avuto ragione loro!
Proprio come quella musica punk che piace tanto a Michele, Edoardo e Iacopo, Margini sembra essere un film di protesta e ribellione verso quei meccanismi che muovono l’attuale commedia italiana mainstream. Quelle commedie dai connotati “borghesi” in cui storie tutte un po’ troppo simili fra loro vengono interpretate sempre dalle stesse facce, sempre dagli stessi nomi, nella speranza di trovare facili consensi da parte del pubblico pagante.
Niccolò Falsetti, di conseguenza, firma un’opera prima che ha proprio il carattere di quella musica punk che fa ascoltare ai suoi protagonisti. Margini è un film terribilmente sgraziato, tecnicamente sgangherato e interpretato da volti per lo più sconosciuti alle grandi masse. Nei panni dei tre protagonisti troviamo tre attori di indubbio talento e che già hanno dimostrato abili prove davanti la macchina da presa, ma comunque tre giovani artisti che il pubblico medio faticherà a riconoscere. Michele, Edoardo e Iacopo hanno perciò il volto di Francesco Turbanti (I primi della lista di Roan Johnson e Io e Spotty di Cosimo Gomez), Emanuele Linfatti (La Belva, Martin Eden) e Matteo Creatini (Short Skin). Tre giovani attori, ma al tempo stesso grandissimi interpreti, a cui vengono affiancati in piccoli ruoli anche volti più riconoscibili come quello dell’onnipresente Silvia D’Amico o quello del simpatico Nicola Rignanese.
Una commedia punk, appunto, un film dichiaratamente fuori dal sistema che gioca con le regole del cinema “grande” pur mantenendo una fattura, sia narrativa che estetica, che è propria del cinema indipendente di frontiera. Margini può essere inquadrato, paradossalmente parlando, come un film low budget fatto con i soldi.
A produrre, come già detto, c’è la stessa Dispàrte che lo scorso anno si è fatta notare con l’acclamato ed elegante Maternal di Maura Delpero; ci sono i Manetti Bros. e c’è Rai Cinema; alla distribuzione troviamo l’inossidabile Fandango di Domenico Procacci. Eppure, Margini è un film che trova il coraggio di aprirsi con una bestemmia velatamente sottaciuta dal fischio di un treno, è un’opera che si presenta con un look che oggi potremmo definire amatoriale e, al tempo stesso, segue delle regole narrative ampiamente fuori tempo massimo.
Niccolò Falsetti confeziona un film che sembra essere pensato e prodotto a metà anni Novanta. Margini è un film che richiama pesantemente l’opera seconda di Riccardo Milani, quel La guerra degli Antò che oggi qualcuno ancora ricorda (lì c’erano i punk a Pescara anziché a Grosseto), ma anche il primissimo cinema di Virzì, così come l’opera prima e seconda di Roan Johnson (dal già citato I primi della lista a Fino a qui tutto bene). Dunque, non sbaglieremmo di certo nel definire quest’opera prima di Falsetti come un “film vecchio”, perché quello che il filmaker del collettivo ZERO confeziona non è un film nostalgico verso quel cinema. È proprio quel cinema lì.
Eppure, molto probabilmente, è proprio grazie all’insieme di tutti questi “difetti” che Margini trova il suo principale senso di esistere. L’opera di Falsetti e Turbanti, nonostante i mille difetti seminati ovunque, si presenta come un film squisitamente onesto e sincero. Privo di qualsivoglia ambizione autoriale, completamente indifferente alle attuali logiche di mercato, ed è proprio in questa sua ostentata sciatteria che Margini trova ironicamente la sua dimensione autoriale.
Margini è un coming-of-age fuori tempo – come l’età dei suoi protagonisti – che riesce a spingere, senza troppe difficoltà, lo spettatore a provare simpatia nei confronti di tre lavativi idioti che non sono null’altro al di fuori di questo. Michele, Edoardo e Iacopo non sono tre ragazzi frustrati ma talentuosi, sognatori scherniti da una società che non li comprende. No, assolutamente, i tre protagonisti di Margini sono proprio tre coglioni che meritano quell’emarginazione sociale che tanto soffrono. Sono tre completi inetti che non fanno altro che compiere scelte sbagliate e scavarsi la fossa da soli, fatta eccezione di Iacopo, l’unico vagamente diligente poiché caratterialmente debole e incapace di opporsi al volere della famiglia.
Non un film comico e, per certi aspetti, nemmeno una vera commedia. Margini è una contemplazione amara, e inevitabilmente tragi-comica, di quel microcosmo sociale che è tipico dei paesi e di certe province italiane. Particolarmente riuscita, a tal proposito, è la scena ambientata negli uffici del comune di Grosseto o quella nell’Auditorium gestito dalla Chiesa. Due sequenze capaci di strappare più di qualche sorriso grazie ad una verità tale che solo chi ha vissuto in queste realtà urbane può davvero capire.
In definitiva Margini è un film al quale si riesce a voler bene. Tecnicamente carente, narrativamente difettoso, eppure onesto e trasparente nel raccontare i sogni decadenti di tre abitanti di un “piccolo” centro urbano italiano che è contento di vivere addormentato.
Giuliano Giacomelli
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