Mistress America, la recensione

Quando facciamo la conoscenza di Tracy (Lola Kirke), capiamo immediatamente che questi primi mesi da matricola in un college di New York sono stati una cocente delusione: il club letterario dei suoi sogni non pubblica i suoi racconti, il ragazzo con cui flirta si mette con un’altra, il profitto studentesco latita, amicizie neanche a parlarne, vita notturna? idem, solitudine a palate. Con ogni probabilità, il momento più gratificante delle sue malinconiche giornate newyorkesi è rappresentato dalle lacrimose interurbane che scambia con sua madre.

Si dà il caso però che la madre di Tracy stia per risposarsi, e che il futuro marito di mamma abbia una figlia, Brooke, diversi anni più grande della protagonista, e che anche quest’ultima viva a New York. Il feeling tra le due è istintivo: Brooke è un po’ l’uragano hipster di cui la vita di Tracy sembrava aver bisogno. Conosce tutti quelli che vale la pena conoscere, vive in un loft, la sua vita notturna è davvero eccitante, ha un milione di cose da fare ogni dannato momento, è in procinto di aprire il ristorante (ristorante è la parola che ci si avvicina di più) dei suoi sogni: va tutto alla grande no?

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 Brooke vive, pensa, respira ed agisce ad una velocità superiore rispetto alla media, anche rispetto alla media newyorkese: sembra che il suo spirito inquieto ed elettrico sia tarato su un fuso orario differente. Il che va bene, per Tracy; almeno da principio infatti, l’entusiasmo iper–contagioso della sorellastra da una benefica scrollata alle ragnatele d’insoddisfazione che impolverano la sua vita.

Le due donne, al di là dello scarto anagrafico, che per altro Brooke si ostina a sminuire continuamente, si confrontano con lo stesso annoso dilemma: come si fa a diventare adulti? A quale prezzo? È troppo tardi forse per impedire che la vita asfalti senza pietà i propri sogni?

MISTRESS AMERICA

Durante la prima mezz’ora di Mistress America, Tracy si lascia sedurre dalla frenesia di Brooke perché le pare di intravedere, nella vita della sorellastra, una direzione da prendere, e questa direzione le sembra molto accattivante; quando, nel corso del film, veniamo a contatto con il disagio, il furore nevrotico, il risvolto fallimentare di cotanto splendore, peraltro evidente fin dall’inizio sapendo un po’ leggere fra le righe, ci accorgiamo che alla base del rapporto fra le due protagoniste c’è sempre stata l’attitudine vampiresca di Tracy che, con un istinto da consumata cantastorie, si appropria della vita di Brooke e ne fa materia del suo universo narrativo, a beneficio della propria crescita e del proprio successo artistico, con evidente scorno della sorellastra.

Il fulcro del film è evidentemente il personaggio di Brooke, interpretata con tratto inconfondibile dall’irresistibile Greta Gerwig; il suo inimitabile mix di fascino, goffagine ed eleganza regala una forza empatica ad un personaggio che sembrerebbe a prima vista destinato ad alienare irrimediabilmente, via via che i passano minuti, le simpatie dello spettatore.

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La trentatreenne attrice e filmaker newyorkese è la musa/attrice feticcio/partner sullo schermo (e fuori) dell’autore del film, Noah Baumbach. Il suo nome magari non farà risuonare nessun particolare campanellino al pubblico italiano; bisogna dire però che parliamo di un regista e sceneggiatore il cui peso nel cinema americano contemporaneo è sempre più consistente; il 50% di quel dinamico duo del movimento indie; laddove Wes Anderson ormai rappresenta il versante blockbuster (e un’impronta stilistica molto più compiuta), la risonanza dell’autore di Mistress America viaggia per circoli più ristretti.

Si tende sempre a definire i personaggi di Baumbach delle icone generazionali; la verità è che l’impronta di base del nostro è sempre spudoratamente elitaria. Le coordinate del suo immaginario cinefilo si riversano nei film con una prepotenza tale che molto spesso è difficile isolare uno stile di regia davvero originale. Woody Allen, Paul Mazursky, il cinema d’autore europeo, per restare solo a questo film, rimandi a Brian De Palma (Vestito per uccidere), cui peraltro Baumbach ha dedicato un documentario del 2015 in collaborazione con Jake Paltrow, e Michelangelo Antonioni (Le amiche).

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Mistress America prosegue un discorso filmico piuttosto omogeneo che che si riallaccia nell’ambientazione e nell’idea di base (New York, la comunità hipster, la transizione fra la giovinezza e l’età adulta) ad un piccolo cult del cineasta newyorkese, il bellissimo Frances Ha del 2014 con la Gerwig sempre protagonista.

Nessuna delle idee che si materializzano nel corso di Mistress America trovano, scelta deliberata, una risoluzione pienamente soddisfacente, che si tratti dello sforzo di transitare in maniera compiuta da una stagione della vita ad un’altra, o nel rapporto che intercorre fra la vita e l’arte, fra la creazione artistica e l’essere umano, carne e ossa, che funge da ispirazione a livello della vita reale. Un’incompiutezza, un respiro mozzato che ha il sapore della vita vera, al di là dei numerosi spunti umoristici che il film regala, a contrappunto di quanto appena detto; ciò che fa di Mistress America una screwball comedy dai risvolti dolceamari, tanto divertente quanto, a tratti, frustrante.

Francesco Costantini

PRO CONTRO
  • La verve di Greta Gerwig.
  • Il commento musicale che spazia fra indie elettronico, pop e una fascinazione morbosa, magari in questo film più difficile da cogliere, per Paul McCartney.
  • Mistress America non riesce ancora a risolvere in maniera proficua la partita che si gioca fra il Noah Baumbach citazionista e il Noah Baumbach autore a tutti gli effetti.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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