Pacific Rim – La rivolta, la recensione

Quando nel 2013 arrivò nei cinema Pacific Rim, un po’ tutti abbiamo gridato al miracolo. Merito di Guillermo Del Toro, che era riuscito a trasformare in un instant-cult un “giocattolone” che in mano ad altri sarebbe potuto essere un clone meno concitato di Transformers. Eppure lo spirito affettuosamente nerd che animava l’operazione, mirata ad omaggiare quell’immaginario nipponico fatto di robottoni e creature mostruose giganti, ha generato uno dei più divertenti, auto-ironici e intelligenti monster-movie degli ultimi anni. Il successo non eclatante ma comunque proficuo del film ha spinto Legendary Entertainment a mettere in cantiere un sequel, inizialmente affidato allo stesso Del Toro, ma poi passato nelle mani dell’esordiente (al cinema) Steven S. DeKnight.

Pacific Rim – La rivolta ci proietta dieci anni dopo gli eventi narrati nel primo film, in un modo che ormai si è lasciato alle spalle gli attacchi dei distruttivi kaiju e ha ricostruito le città così come erano prima dell’orribile guerra con i mostri provenienti dalla breccia nell’oceano. La tecnologia jaegers, invece, è stata riciclata da alcune multinazionali private e impiegata nel settore della sicurezza. Jake Pentecost, figlio del generale Stacker morto per salvare l’umanità nella battaglia finale contro i kaiju, non ha mai finito l’addestramento per diventare un pilota di jaegers e si guadagna da vivere nell’illegalità, rubando tecnologia jaegers da rivendere al mercato nero. Un giorno, dopo essere stato arrestato, il suo riscatto viene pagato dalla sorellastra Mako Mori, anch’essa ex pilota e ora a capo del programma d sicurezza globale, che gli propone di tornare ad addestrarsi. Malgrado la riluttanza iniziale, Jake accetta poco prima che una nuova minaccia si scagli sull’umanità, anche se stavolta il pericolo sembra provenire proprio dalle fila jaegers.

Che il “miracolo” del primo film fosse difficile da replicare era abbastanza nell’aria e tutto si è svolto secondo le aspettative: Pacific Rim – La rivolta è solido cinema d’intrattenimento ma troppo conforme alla massa e lontano da quell’aria irresistibilmente cheap del capitolo firmato da Guillermo Del Toro. In fondo, Steven S. DeKnight non ha la personalità ne lo stile del suo predecessore, arriva dalla tv, allievo di Jos Whedon – è stato sceneggiatore di serie cult de passato come Buffy, Angel e Dollhouse – e di Sam Raimi – ha creato e curato le quattro stagioni di Spartacus – nonché showrunner per il Daredevil di Netflix, e per il suo esordio sul grande schermo ha svolto il “compitino” come assegnatogli dalla produzione.

Il soggetto di questo sequel ha buoni spunti perché riesce a ricollegarsi con naturalezza al precedente capitolo senza doverne fondamentalmente ripetere la struttura. Infatti troviamo un mondo proiettato nel futuro ma praticamente identico a quello odierno, se non fosse per qualche robot in giro per le città pronto a far rispettare la legge, ed è in questo contesto che facciamo la conoscenza del protagonista, il classico giovane scapestrato che ha abbracciato la via della malavita soprattutto per uno spirito ribelle che lo spinge a rinegare le sue radici. John Boyega, ormai noto a tutti come Finn di Star Wars, ha l’espressione da duro ma non ci credi neanche un secondo che possa essere un bad-boy e infatti, dopo aver fatto convergere la sua strada con quella dell’orfanella esperta di robotica Amara (Cailee Spaeny), la trama lo vuole schierato nelle fila dei piloti di jaegers pronto a difendere l’umanità da una nuova subdola minaccia. E il modo in cui la Terra viene nuovamente messa in pericolo è un’altra buona freccia nell’arco di una trama frutto di un buon lavoro di costruzione e inventiva. Però qualcosa non funziona in Pacific Rim – La rivolta, qualcosa di fondamentale per il sequel di un blockbuster, ovvero il ritmo.

Questo numero due è come se fosse un nuovo numero uno, un reboot, e parte da una situazione di tranquillità, con nuovi personaggi, prendendosela decisamente comoda prima di immergerci nell’azione e introdurci la nuova minaccia. Il risultato è che si da spazio più ai personaggi che alla “distruzione”, il che è un intento sicuramente nobile, ma va anche contro le aspettative del pubblico che va a vedere il secondo capitolo di un franchise incentrato su robot giganti che si menano con mostri venuti da un’altra dimensione. Gli stessi kaiju, vero punto di forza di Pacific Rim (ben più dei jaegers, almeno per chi scrive), compaiono tardissimo e si fanno protagonisti solo negli ultimi venti minuti del film.

Quindi, voi che vi aspettate un film catastrofico e ignorante, fatto di cose che esplodono e mostri giganteschi che scorrazzano in lungo e in largo, sappiate che Pacific Rim – La rivolta sarà pane per i vostri denti solo nell’ultimo atto, che in quanto a distruzione e spettacolarità riesce anche a superare il predecessore.

Un ritmo mal calibrato e una normalizzazione generale della messa in scena (dimenticatevi i colori flou scelti da Del Toro), fanno di Pacific Rim – La rivolta un film riuscito a metà, sicuramente pensato più per essere nuovo inizio di un franchise che per reali meriti artistici capaci di farlo emergere dalla massa.

Si lascia guardare, ma l’esaltazione generata dal film di Del Toro qui si perde completamente.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Stranamente mostra un lavoro di scrittura più strutturato del solito a cui questi film ci hanno abituato.
  • Gli ultimi venti minuti offrono uno spettacolo di sicuro intrattenimento.
  • Ritmo calibrato malissimo, con 1 ora e quaranta minuti di chiacchiere e venti minuti di azione esplosiva.
  • Completamente anonimo nello stile di regia e messa in scena.
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Valutazione: 6.0/10 (su un totale di 1 voto)
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