Petit Paysan – Un eroe singolare, la recensione

Dal 22 marzo, nelle sale italiane, arriva Petit Paysan – Un eroe singolare, pluripremiata opera prima di Hubert Charuel, che vanta, oltre al patrocinio di Slow Food ed una proiezione speciale alla 56° Semaine de la Critique di Cannes 2017, tre premi César ed il Premio Foglia d’Oro a France Odeon.

La storia: Pierre (Swann Arlaud) è un piccolo produttore di latte. Pierre è giovane, ha trent’anni e una vita che gravita completamente attorno all’azienda agricola di famiglia, la sorella veterinaria ed i genitori. Mentre in Francia dilaga un’epidemia vaccina, il nostro eroe del quotidiano scopre che uno dei suoi animali è infetto: ha il morbo HDF, febbre emorragica dorsale (patologia che non esiste ma che si riferisce alla BSE – encefalopatia spongiforme bovina, drammaticamente nota come “morbo della mucca pazza”). L’uomo non vuole rassegnarsi a perdere i suoi animali e con loro il lavoro. Non ha nient’altro. Tenta quindi l’impossibile per salvarli e salvarsi, superando i limiti della legalità.

Hubert Charuel conosce bene la materia che ha deciso di trattare realizzando, così, un’opera molto personale. Fonte d’ispirazione del film sono proprio i suoi genitori, che hanno messo a disposizione per le riprese la loro fattoria, nei pressi di Reims, dove vediamo recitare attori professionisti e persone del posto, che creano un’atmosfera di verità. Gli stessi genitori ed il nonno di Hubert interpretano delle parti nel film.

Cresciuto in una fattoria, Charuel ha imparato sulla sua pelle il significato di lavorare a stretto contatto con gli animali, e tutto ciò lo ha trasmesso nel suo lavoro da regista.

L’idea di realizzare questo film proviene da una paura che ho avuto da bambino, perché – racconta Charuel – quando negli anni ’90 c’è stata la crisi della mucca pazza, che è stata molto importante in Francia, come credo in Italia, si è adottato questo metodo di precauzione: se un animale era malato, si abbatteva tutta la mandria. Questa crisi ha lasciato un’impressione indelebile in me. Mia madre, che come Pierre, era innamorata delle sue vacche, ricordo che disse: se succedesse a me mi suiciderei. Gli allevatori vivono in periodi di grande crisi, non hanno più fiducia nelle centrali d’acquisto e nelle politiche agricole europee, e sanno che è molto complicato restare a galla e hanno paura per le loro aziende. Sono degli eroi, sono persone che lavorano sette giorni su sette, 365 giorni l’anno, per dar da mangiare alle persone. Questa è la base del lavoro, un lavoro che certo non li arricchisce”. Petit Paysan racconta, senza troppi giri di parole o di sceneggiatura, del legame spietato e soffocante fra un uomo e il suo lavoro nella fattoria. Tra un eroe e la sua sfida quotidiana, che non è quella di salvare l’umanità, ma di salvare il suo mondo, ogni giorno, ed i suoi animali.

Come spesso accade, il cinema francese ha il pregio di saper abbandonare le grandi città per raccontare la vita della provincia e della campagna, a volte in chiave molto bucolica, a volte molto cruda. Charuel, grazie anche all’utilizzo di spunti sociologici e psicologici, racconta aspetti interessanti della “campagna” e ci presenta anche il rapporto della stessa con la tecnologia. Inoltre, se spesso la tecnologia è un valido ausilio al lavoro degli allevatori, le istituzioni non sono altrettanto attente ai loro bisogni. Chi si trova colpito dalla disgrazia di un’epidemia si vede promettere rimborsi ed incentivi ma, nell’attesa, non sa come tirare avanti.

Hubert Charuel costruisce una storia che spazia dal “thriller” al drammatico, dalla commedia al grottesco, il tutto racchiuso nella cornice del contesto rurale e agricolo. Con questa modalità interessante presenta un film moderno, che sa attingere quanto basta da ogni genere. Attraverso la scrittura, le riprese ed il montaggio si passa dal naturalismo ad una vena più “dark”, giocando con i codici di genere. Per far ciò la regia utilizza anche un notevole cambio di luce sul set: il film inizia con un’atmosfera calda e solare, per poi affondare in una luce industriale e artificiale. La musica del Club Cheval Collective aiuta a coadiuvare il passaggio dal realismo al genere, consentendo allo stesso tempo, nei momenti in cui il protagonista è solo, di entrare nella sua mente. Le immagini si fanno portavoce delle emozioni, dei risentimenti e delle paure del regista, che ci lascia intendere una vera passione verso il cinema e soprattutto ciò che viene rappresentato al suo interno: la vita animale e la dedizione al lavoro.

Petit Paysan è la storia d’amore di un uomo per i suoi animali e per il lavoro che ha ereditato dalla famiglia: “Io parlo di storia d’amore, che è anche una storia di lealtà, che è importantissima – spiega il regista – ed è alla base del mestiere dell’allevatore. L’amore, gli animali, la famiglia, in una fattoria tutto è legato, tutto va nella stessa direzione. Questa lealtà è la stessa: sia verso la famiglia che verso i propri animali”. Petit Paysan racconta un uomo e alla sua semplice e complicata storia, che non ha la pretesa di ingraziarsi il pubblico toccando argomenti complessi. La storia di un fattore che vuole semplicemente vivere in armonia con i propri animali. Non si può gridare al “capolavoro”, ma è un film onesto che si lascia guardare. La sua semplicità, quasi familiare, si percepisce e ripaga la visione.

Ilaria Berlingeri

PRO CONTRO
  • La semplicità della narrazione.
  • La bravura dei protagonisti.
  • L’argomento: spesso non siamo portati a pensare, da spettatori, a problematiche di questi tipo.
Nessun contro.
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