Una settimana e un giorno, la recensione

Iniziamo col dire che Una settimana e un giorno (titolo originale Shavua Ve Yomè, senza troppi giri di parole, un film semplicemente bellissimo. È un’opera prima di rara coerenza e bellezza. Di cotanto calibro se ne vedono, davvero, molto poche.

La trama è tanto semplice quanto, immensamente, complessa. Eyal Spivak e sua moglie Vicky, interpretati magistralmente da Shai AviviJenya Dodina, hanno trascorso la rituale settimana di lutto, la Shiv’ah, prevista dalla religione ebraica (più avanti approfondiremo le regole di questo rituale), per la morte del giovane figlio, ed è giunto il momento di ritornare alla quotidianità. Eyal torna alla clinica per malati terminali per recuperare una coperta che apparteneva al figlio e trova nel cassetto della stanza, una confezione di marijuana per uso medico. Decide di portarla via e chiede al figlio del vicino di aiutarlo a rollare uno spinello.

Arriva sui nostri schermi Una settimana e un giorno, (dall’11 maggio, distribuita da Parthenos), dopo essere stata pluripremiata al Jerusalem Film Festival e alla Semaine de la Critique a Cannes, questa perla di Asaph Polonsky, trentatreenne regista israeliano.

Facciamo un attimo un salto indietro, come promesso, per chi, come la sottoscritta, non conosce le regole ebraiche del lutto. Dopo il funerale inizia la Shiv’ah o Avelut che dura 7 giorni (il giorno della sepoltura è già considerato il primo giorno e il settimo giorno termina dopo la preghiera del mattino). Agli Avelim (genitori, figli, fratelli o coniuge del defunto) non è permesso lavorare durante i sette giorni. Al ritorno dal cimitero essi dovranno consumare pasti che saranno portati in dono da un’altra famiglia ebrea, stando seduti in terra o su bassi panchetti. Questo pasto è composto da pane, uova sode, sale e caffè; alcuni aggiungono olive e biscotti. Gli Avelim non possono sedersi a tavola, ma debbono mangiare seduti sui loro sgabelli per tutti i sette giorni. La conoscenza di queste regole è importante, per addentrarsi al meglio nella psicologia dei personaggi e per avvicinarsi alla comprensione di quanto sia difficile affrontare quel giorno, quel…e un giorno, che conclude il titolo del film. La tradizione della Shiv’ah – racconta il regista – è radicata nella comunità ebraica di Israele e consente una nuova prospettiva sul periodo del lutto. Per quanto sia un rituale affascinante, a me interessava soprattutto esplorare quello che accade quando si conclude”.

I nostri Avelim, Eyal e Vicky, sono due anime che devono elaborare un lutto e lo fanno in modi diversi. È sempre difficile trattare l’argomento della morte, anzi, se vogliamo, è difficile trattare l’argomento della sopravvivenza dei cari. Polonsky affronta il tema con una grande maturità: mette da parte i toni più drammatici e lacrimevoli, per scegliere le sfumature della commedia stoner. Attenzione però, la narrazione non scade mai in situazioni completamente astruse e folli, come ogni stoner comedy che si rispetti propone. Non aspettatevi una sorta di Strafumati (stoner cult del 2008), con Shai Avivi al posto di James Franco! Nel film, fortemente supportato dalla realtà della tradizione cinematografica israeliana e dalla cultura ebraica in generale, il giovane regista analizza il lutto con ironia cinica, delicata e mai spensierata, mantenendo sempre i toni in equilibrio, alla stregua di un funambolo.

Uno dei miei migliori amici ha perso la sua ragazza troppo giovane. Lei era molto malata e, nonostante sapessimo della sua condanna, la sua morte – Asaph Polonski racconta come è arrivata l’idea per la sceneggiatura – è stata una sorpresa e uno shock per noi tutti. Avevo visto il mio amico un venerdì sera e qualche giorno dopo mi ha chiamato per darmi la terribile notizia. Lo stesso giorno, un gruppo di amici è andato a far visita ai genitori della ragazza e all’amico in lutto. Erano tutti in silenzio, in tali circostanze non c’è poi molto da dire. All’improvviso, uno di loro ha rotto il silenzio chiedendo se fosse rimasta dell’erba fumata a scopo medicinale dalla ragazza. La domanda ha lasciato tutti sorpresi, sembrava incongrua in quel contesto. Lo ricorderò sempre. Ho anche perso mia zia da piccolo. E facendo il confronto tra le due situazioni ho potuto notare che tutti hanno un proprio modo di trattare il dolore”. C’è una sola risposta che si può dare, per colmare l’incolmabile: ricominciare a vivere è un diritto e un dovere.

Plauso particolare alla fotografia di Moshe Mishali e alla colonna sonora.

Vera chicca del film? Una settimana e un giorno regala una delle scene di mimo più intense che il cinema offre da decenni. Pura arte.

Ilaria Berlingeri

PRO CONTRO
  • I due protagonisti.
  • La scena di mimo tra le più belle viste sul grande schermo.
  • Nulla.
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Valutazione: 9.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Una settimana e un giorno, la recensione, 9.0 out of 10 based on 1 rating

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