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Avatar – La via dell’acqua, la recensione
La via dell’acqua potrebbe essere il titolo di un documentario dedicato alla carriera di James Cameron, tanto è ricorrente e importante nella sua filmografia questo elemento, che nel secondo Avatar diventa protagonista a tutti gli effetti del racconto. Se pensiamo, infatti, che Cameron ha esordito alla regia con un film ambientato in una cittadina costiera con numerose scene in acqua e subacquee – l’horror Piraña Paura – possiamo capire come il suo fosse un destino già scritto. La celebre scena in cui Newt rimane da sola in balia di uno xenomorfo in Aliens – Scontro finale? È in un condotto sommerso dall’acqua. The Abyss è interamente ambientato sott’acqua, di Titanic mi sembra superfluo parlare, così come i documentari “marini” Ghosts of the Abyss e Aliens of the Deep, senza dimenticare che, come produttore, Cameron ha in curriculum Point Break, su un gruppo di surfisti rapinatori di banche, e Sanctum, ambientato in un complesso di grotte subacquee con dei sommozzatori speleologi protagonisti. Un rapporto di simbiosi che in Avatar – La via dell’acqua raggiunge il suo apice in quanto a spettacolarità immersiva e messaggio.
Venezia 73: Les beaux jours d’aranjuez
Wim Wenders e Peter Handke si risiedono a tavolino dopo ventinove anni (Il cielo sopra Berlino, 1987) per adattare la celebre pièce del drammaturgo austriaco a un film 3D dal carattere fortemente esistenzialista.
A cosa serve utilizzare la tecnica del 3D per produrre una pellicola interamente ambientata nel giardino di una villa nell’ile-de-France? Se ve lo state chiedendo, vuol dire che il cinema di Wim Wenders non fa per voi.