The Reach – Caccia all’uomo, la recensione

Ben ha 25 anni, è un giovane di belle speranze e conosce il deserto del New Messico come le sue tasche. Per professione, infatti, Ben accompagna i turisti per quelle lande desolate, assolate e piene di pericoli. Una mattina, dopo aver visto partire la sua fidanzata Laina, trasferitasi in città per motivi di studio, Ben viene assoldato da John Madec, un eccentrico miliardario con la passione per la caccia. Ottenuto un permesso speciale che consente la caccia fuori stagione, Madec è intenzionato a catturare ed uccidere un muflone per aggiungere un nuovo trofeo alla sua collezione. A poche ore dall’inizio della caccia qualche cosa va storto, John Madec uccide accidentalmente un uomo e Ben è l’unico testimone di quel tragico incidente. Madec, che vista la sua posizione imprenditoriale non può correre il rischio di essere accusato d’omicidio, innesca una caccia serrata e la preda non è più il muflone bensì il giovane Ben. 

Prodotto dalla Furthur Films di Michael Douglas e Robert Mitas, il film in questione nasce dalle pagine del fortunato romanzo di Robb White Deatwatch, editato nel 1972 e dal quale era già stato tratto nel 1974 un adattamento televisivo dal titolo Savage interpretato da Andy Griffith e Sam Bottoms.

Il deserto assolato, un po’ come anche il mare aperto, rappresenta senza ombra di dubbio una location naturale perfetta per inscenare un film di genere in cui la minaccia deve essere doppia: non solo quella umana ma anche quella della Natura stessa che con le sue aspre “regole” riesce davvero a mettere a dura prova lo spirito di sopravvivenza umano.

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“Nello spazio nessuno può sentirti urlare”, recitava la celebre tag-line italiana del film Alien di R. Scott. Nel cuore del deserto del New Messico è più o meno la stessa identica cosa.

L’idea, o meglio ancora l’interrogativo, che sta alla base di questo piccolo thriller e che muove gli ingranaggi dell’intera narrazione è uno: quanto si può sopravvivere nel deserto, da soli e sotto il sole cocente, senza provviste e scorte d’acqua? Sicuramente poco, viste le numerose minacce naturali a cui si sarebbe esposti, ma ancor di meno se a peggiorare le cose c’è un folle armato di fucile che se ne va in giro a bordo del suo pick-up Mercedes pronto a sparare a vista. Da questo semplice ma efficace interrogativo prende avvio The Reach – Caccia all’uomo, un thriller minimalista e dal ritmo serrato diretto da Jean-Baptiste Leonetti e quasi esclusivamente affidato alle performance dei due attori protagonisti, il veterano Michael Douglas e il giovane Jeremy Irvine, che dandosi la caccia per i novanta minuti di durata, come farebbe un gatto con il topo, reggono sulle loro spalle l’intero lungometraggio riportandoci alla memoria il classico del 1932 La pericola partita (The most dangerous game) di Irving Pichel e Ernest Beaumont Schoedsacka cui il film di Leonetti, e ancor prima il romanzo di White, sono sicuramente debitori.

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Le carte in tavola per fare un bel film c’erano tutte, a partire proprio dalle scenografie naturali mozzafiato, peccato però che nulla riesce ad andare per il verso giusto e il film finisce per risultare, a conti fatti, solo un concentrato di scelte sbagliate se non addirittura idiote.

Nulla riesce a funzionare come dovrebbe e la principale colpa va attribuita alla sceneggiatura, firmata da Stephen Susco, incapace di rendere cinematografiche ed accattivanti le pagine del libro da cui il film prende ispirazione. Il primo fra tutti i problemi è riscontrabile nella maldestra caratterizzazione dei due protagonisti: da una parte abbiamo un Michael Douglas confuso alle prese con un cattivo per nulla convincente, un miliardario-mammoletta che fa il verso al Gordon Gekko di Wall Street, che a mala pena sa imbracciare un fucile e che di conseguenza non riesce ad intimorire nemmeno per un istante; dall’altro lato c’è il giovane Ben, il cui volto è quello dell’inespressivo Jeremy Irvine, un eroe bidimensionale che cerca la sua introspezione in ridicoli flashback fuori luogo utili ad approfondire l’ancor più intrusa storia d’amore tra lui e la sua fidanzata Laina.

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Ma il vero colpo di grazia, che finisce per affondare totalmente l’opera, arriva con gli ultimi dieci minuti quando il film inizia a regalarci una serie di colpi scena improbabili, uno più risibile dell’altro, la narrazione cambia e incespica in alcune forzature che una buona sceneggiatura dovrebbe sempre evitare. L’epilogo, che ha l’odore di un b-movie televisivo dei primi anni novanta, è qualcosa di inaccettabile sia sotto il profilo della credibilità che sotto quello della realizzazione a causa di infelici escamotage di regia e di montaggio che rendono il tutto tanto posticcio quanto confuso.

Poteva venire fuori qualche cosa di notevole, un thriller dal sapore retrò con scenari naturali incantevoli, e invece è venuto fuori un prodotto blando che non riesce a convincere neppure per un istante. Bocciato.

Giuliano Giacomelli

Pro Contro
  • Paesaggi naturali affascinanti.
  • Ritmo costante per tutti i 91 minuti di durata.
  • Sceneggiatura disarmante che inciampa in tutti i difetti che uno script dovrebbe saper evitare.
  • Personaggi mal delineati e poco interessanti, tra cui un antagonista da barzelletta.
  • Gli ultimi dieci minuti sono un autentico disastro.
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Valutazione: 4.0/10 (su un totale di 1 voto)
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