Venezia 72. Behemoth
Ancora un altro documentario per la 72° edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, forte del successo avuto nelle edizioni precedenti da Sacro Gra e The Look or Silence. Behemoth, più che un documentario vero e proprio, è un film che diventa documentario quasi per caso. Inizia come un documentario a metà strada tra Daniele Segre e Vittorio De Seta, e con immagini rubate a Nikita Michalkov, ma finisce per poetizzare ciò che rappresenta, come ispirandosi a Tsai Ming-liang.
I colori variopinti tengono incollati lo spettatore al film, creando una vera e propria dinamica sul colore, grazie anche all’aiuto di una bellissima fotografia. Per Zhao Liang, documentarista d’esperienza, sembra arrivato il momento di una sperimentazione visiva sul colore, paragonabile a quella già tentata da Antonioni con Il deserto rosso. E’ infatti il colore a legare i passaggi di immagine in maniera sorprendente: ai volti inneriti dei personaggi segue il lavoro nella miniera di carbone, il grigio delle strade è contrapposto al verde delle praterie, ecc…
Behemoth rappresenta la vita quotidiana di un villaggio mongolo, contrapponendo il lavoro duro al vuoto dell’agglomerato urbano. I lavoratori sprecano la loro energia per produrre qualcosa che cade quasi in disuso. Tuttavia, il regista trasforma ciò che filma in una rappresentazione dantesca della contemporaneità. Il riferimento a Dante è costante sia quelle pochissime volte che interviene la voce narrante, sia nella messa in scena. L’immagine del cielo stacca, si trasforma in piramide, diventando un paradiso irraggiungibile, mentre la terra assume una forma labirintica, quasi il vero inferno fosse già qui, in questa vita.
Claudio Rugiero
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