Vetro, la recensione
Nella stanza di un piccolo appartamento di Torino vive Lei, una ragazza che da tanto, tantissimo tempo non esce dalla sua cameretta a causa di una paura smodata verso il mondo esterno. Attraverso uno sportello sito nell’estremità inferiore della porta della sua stanza, Lei comunica solo con suo padre, un uomo amorevole che si prende cura di lei svolgendo il triplice ruolo di padre, amico e insegnante. Per combattere la monotonia quotidiana e non perdere totalmente il contatto con il mondo esterno, sollecitata da suo padre, Lei si convince ad entrare nella chat online “Community” e qui fa la conoscenza di un giovane e timido ragazzo con il quale instaura presto un rapporto tenero e complice. Un pomeriggio come un altro, spiando attraverso il vetro della sua finestra, Lei nota qualcosa di strano nell’inquilino dell’appartamento di fronte e presto si convince che quell’uomo ha sequestrato una donna.
Presentato in anteprima al Bifest (Bari International Film Festival) nella sezione Panorama Internazionale, Vetro è il debutto nel lungometraggio per Domenico Croce, giovane regista che già lo scorso anno si era fatto notare co-dirigendo (insieme a Stefano Malchiodi) l’interessante cortometraggio Anne, vincitore del David di Donatello 2021.
Se già con Anne Domenico Croce si era dimostrato attratto dalla sperimentazione visiva – quello diretto con Malchiodi è uno short movie realizzato interamente con un filtro fotografico che simula l’effetto del rotoscopio – c’era da aspettarselo che il suo debutto potesse essere poco convenzionale. E infatti, per fortuna, così è stato.
Vetro è un piccolissimo film. Quasi microscopico nella sua natura produttiva.
È un oggettino davvero strano per il nostro cinema che testimonia, ancora una volta, quanto le nuove generazioni di registi siano affamate di linguaggi innovativi e di quanto siano desiderosi di rompere quello stanco e grigio sistema produttivo che ha imprigionato il cinema italiano dagli anni Ottanta ad oggi. Quello che si sta cercando di fare adesso in Italia, grazie ai giovani autori e soprattutto alle giovani e audaci produzioni (qui produce Fidelio), è realizzare un cinema meno miope e capace di guardare al panorama internazionale. All’industria cinematografica, dunque. Cercando di realizzare prodotti competitivi e che possano essere allettanti anche per il nostro pubblico più giovane che cresce a pane e Netflix.
Sotto questo punto di vista Vetro non può che definirsi un’operazione riuscita. Perché è un film che riesce ad utilizzare con molta intelligenza il (presumibilmente) basso budget a disposizione, creando una storia che si sviluppa per tutta la sua durata, con disinvoltura e credibilità, all’interno di una stanza (non un appartamento, una stanza!) e che riesce a coniugare in modo interessante tematiche sociali e teen-drama con uno sviluppo da thriller adulto capace di sconfinare persino in momenti di gore anche abbastanza forti.
Prendendo spunto da un tema che oggi ha grande validità sociale, ossia quello degli hikikomori (tutte quelle persone che si isolano drasticamente dalla società, rifiutandola e trovando spesso rifugio nella tecnologia) Vetro pensa bene di adattare ai nostri giorni un concept narrativo che è entrato di diritto nella Storia del cinema: ovvero quello portato in scena da Hitchcock nel capolavoro La finestra sul cortile. Tra remake e non, infatti, dal ’54 ad oggi non si contano le volte in cui la settima arte ha messo gli occhi su un plot simile. Una storia perfetta per dare vita ad un thriller a basso budget in cui a fungere da focus narrativo non è l’azione bensì l’impotenza ad agire davanti ad un reato evidente. Se James Stewart, dopo aver individuato l’assassino, non poteva intervenire a causa del gesso alla gamba che lo costringeva sulla sedia a rotelle, nel film di Croce la nostra Lei è impossibilitata ad intervenire direttamente a causa della sua “fobia”. Un modo indubbiamente interessante di rileggere la questione legata agli hikikomori.
Ma quello di Domenico Croce non è un film dichiarato su questo problema sociale. Assolutamente no. Quella legata agli hikikomori (nel film non si nomina mai il termine!) è una tematica che funge solo da innesco, da set-up narrativo, poi la pellicola individua una strada tutta sua e decide di puntare tutto sul genere e sull’originalità, trasformando una storia tanto semplice in partenza in un racconto complesso e ricco di plot twist nell’ultimo atto.
Se vogliamo, infatti, questa continua ed esagerata voglia di stupire a tutti i costi finisce per essere croce e delizia per l’opera prima del giovane autore.
Da una parte, infatti, si apprezza tantissimo la volontà di puntare molto sulla narrazione e soprattutto sulle scelte scomode. Vetro riesce a giocare benissimo con i suoi spazi limitati, di questo gli va dato atto, e pian piano conduce lo spettatore in una storia che si fa sempre più alienata e alienante. Persino disorientante. Un film che inizia come un dramma leggero legato ai problemi adolescenziali, con tanto di tenera parentesi quasi da rom-com, si trasforma lentamente in un allucinato thriller adulto capace persino di piazzare qualche inatteso e doloroso pugno nello stomaco.
Dall’altra parte, però, bisogna riconoscere che questa smodata voglia di stupire lo spettatore con colpi di scena inaspettati non sempre funziona bene. Dopo un primo colpo di scena che ci arriva a metà film, tanto prevedibile quanto funzionale, Vetro vuole dimostrare di non aver ancora giocato tutte e sue carte così che nell’ultimo atto si abbandona ad una serie di twist narrativi che si susseguono l’uno dietro l’altro. Cambiando di continuo le carte in tavola, spiazzando e disorientando, ma generando anche una serie di buchi di sceneggiatura destinati a non essere colmati.
Tuttavia, Domenico Croce si dimostra un abilissimo narratore. Ha stoffa da vendere e non fatica a dimostrarlo. Non solo perché riesce a tenere alto il ritmo e il coinvolgimento del film movendosi per tutto il tempo in uno spazio davvero limitato (la cameretta di Lei, ricreata nei teatri di posa del CSC), ma anche perché riesce a costruire un film che si regge totalmente sulle spalle della sua protagonista, la bravissima Carolina Sala.
Già apparsa nella serie Rai La guerra è finita e in quella Netflix Fedeltà, Carolina Sala non è solo la protagonista del film di Croce, lei è il film di Croce. Stando in scena dal primo all’ultimo fotogramma, avendo sempre la m.d.p. puntata addosso, Carolina Sala offre una performance intensa, davvero completa e complessa, portando lo spettatore a vivere con lei le molteplici emozioni contrastati che il suo personaggio vive nel corso del film. Completano il cast Tommaso Ragno e Marouane Zotti, entrambi relegati in ruoli di supporto confinati fuori dalla scena (il primo fuori dalla finestra e il secondo nel monitor di un pc).
Ad avvalorare ulteriormente Vetro ci pensa anche la bella fotografia di Cristiano Di Nicola che sembra guardare tanto alle produzioni americane a marchio Netflix. Quella di Di Nicola è una fotografia che contribuisce a tenere alto il carattere internazionale del film, giocando molto con i colori: caldi, morbidi e pastello in tutta la prima parte ma anche acidi e glaciali nel momento in cui l’idillio lascia spazio all’incubo.
Insomma, Vetro è un film tanto piccolo quanto interessante. Un ambizioso e anomalo esordio nel lungometraggio, che mette molta curiosità su quello che potrà essere il percorso artistico di un giovane autore che sembra avere un punto di vista sul cinema assai interessante. Aspettiamo fiduciosi la sua opera seconda.
Giuliano Giacomelli
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