Welcome to the Blumhouse: Black Box – Ritrova te stesso, la recensione

ritrova te stesso

Prosegue il nostro approfondimento di Welcome to the Blumhouse, la serie antologica di lungometraggi (slegati tra loro) realizzati dalla casa di produzione di Jason Blum in collaborazione con gli Amazon Studios che ne hanno curato la distribuzione quasi esclusiva sulla loro piattaforma Prime Video. Il ‘quasi’ è dovuto al fatto che, sporadicamente, alcuni di questi titoli sono riusciti ad arrivare persino in sala in una manciata di paesi, come ad esempio Black Box, il film di cui parleremo oggi, uscito in Russia lo scorso maggio.

Arrivato in Italia col banale e meno efficace titolo Ritrova te Stesso, Black Box fa parte del primo blocco di quattro episodi rilasciati da Prime tra il 6 ed il 13 ottobre 2020 ed accomunati dal tema della famiglia e dell’amore intese come forze redentrici e/o distruttrici. Lo spunto è di natura fantascientifica, fantomatici esperimenti di matrice tecnologica che permettono il trapianto di coscienza, consentendo ad una persona defunta di poter rivivere nel corpo lasciato (suo malgrado) da un altro individuo. La miccia sci-fi non fa altro che innescare quello che fondamentalmente è un thriller psicologico costruito su momenti onirici dalle sfumature vagamente orrorifiche.

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Il protagonista è Nolan (non so se sia una coincidenza o una sorta di omaggio al regista britannico), un uomo reduce da un gravissimo incidente stradale nel quale sua moglie ha perso la vita e lui la memoria, dopo essersi miracolosamente ripreso da quella che i medici ritenevano fosse una morte cerebrale. L’uomo cerca disperatamente di rimettere a posto i cocci della propria psiche, anche perché ha una figlia a cui badare che da parte sua ce la mette tutta per aiutare il papà nell’impresa. Dopo l’ennesimo passo falso, su consiglio di un caro amico, Nolan deciderà di rivolgersi alla Dottoressa Brooks, che sembra aver sviluppato delle tecniche di ipnosi avanguardistiche, ma che in realtà cova interessi personali che vanno ben oltre la sfera professionale.

Black Box è scritto e diretto da Emmanuel Osei-Kuffour Jr., nato in Texas da genitori ghanesi, qui all’esordio su un lungometraggio. La regia è funzionale al contesto, discretamente curata. Qualche incertezza viene fuori da una sceneggiatura che mostra certamente potenziale anche se poi non riesce a sfruttarlo pienamente. Il meccanismo narrativo costruisce il vantaggio di porre lo spettatore nella stessa condizione del protagonista, portandolo a vivere insieme a lui le visioni/ricordi che riemergono durante le sedute di ipnosi. Dettagli e informazioni che di volta in volta rappresentano nuovi pezzi di un puzzle mnemonico che gradualmente prende forma, andando a svelare quella che di fatto è una verità inquietante.

Ritrova te stesso

Un tipo di impostazione che ha quindi il merito di mantenere costante l’attenzione del fruitore, nonostante il plot twist arrivi probabilmente prima del dovuto. Particolare che mi offre il gancio per parlare dell’altro lato della medaglia, un punto debole da rintracciare in un terzo atto che per quanto non manchi di svolte emozionali non ha la forza di imbastire un climax coeso e adeguato. La visione scorre, ma se l’intreccio sapeva stimolare l’interesse, il modo in cui viene dipanato non offre quella vigoria di cui avrebbe necessitato una storia di questo tipo. L’ora e quaranta di durata non pesa eccessivamente, ma col senno di poi avrebbe potuto anche essere sfoltita di almeno una decina di minuti. Non aiuta una componente orrorifica un po’ blanda, la questione dei volti offuscati porta sufficiente inquietudine (non tanto dal punto di vista visivo, quanto da quello empatico/emotivo) ma affidare i pochi sussulti sinistri al solito tizio tarantolato che si muove contorcendosi e inarcandosi in maniera innaturale è troppo poco, oltre che ricorrere ad un cliché evidentemente abusato. In sostanza, è un racconto che sa stuzzicare ma nel momento topico si fa prendere dalla timidezza.

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Non mancano, comunque, frammenti di riflessione e critica sociale legati a quelle tematiche che, come dicevo in apertura, accomunano i quattro lungometraggi del primo blocco. A cominciare dalla forza di disperazione di un genitore che per il proprio figlio farebbe qualsiasi cosa, incluso superare confini etico/morali/legali. Ma c’è anche (se non soprattutto) un riferimento significativo alle violenze domestiche, argomento purtroppo sempre tristemente attuale, vedi casi di femminicidio che riempiono con preoccupante frequenza le pagine di cronaca; ho apprezzato l’approccio decisamente realistico, nessun buonismo da redenzione, la morale conclusiva è un monito piuttosto esplicito: l’orco non cambia mai, resta tale anche quando sembra far credere il contrario, l’unica salvezza per la donna è allontanarsene.

Osei-Kuffour rimarca con orgoglio le proprie origini anche nelle scelte di casting. L’osservazione non nasce, banalmente, per il solo fatto di aver affidato tutti i ruoli principali ad attori di colore, quanto al particolare che alcuni di loro abbiano origini africane proprio come il regista. Zimbabwe per Charmaine Bingwa o Nigeria per Tosin Morohunfola, due nomi in ruoli di supporto; nasce invece in Mauritania il protagonista Mamoudou Athie che interpreta con coerenza un personaggio contraddistinto da un’aria costantemente (ed inevitabilmente) spaesata, confuso, smarrita. Convince meno Donald Watkins nei panni del marito violento, ma la migliore del cast si rivela – prevedibilmente e a mani basse – Phylicia Rashad che, a 72 anni, porta a casa il ruolo con esperienza e fascino – da ragazzino avevo una cotta per la signora Robinson, ma mi sorge il dubbio che questo non fosse il momento ed il luogo per pensare ad alta voce.

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Amanda Christine as Ave and Mamoudou Athie as Nolan in BLACK BOX

In definitiva, siamo al cospetto di un prodotto sufficiente, che ha dalla sua argomentazioni sia di tipo narrativo che contenutistico, ma che avrebbe potuto raggiungere un risultato più incisivo se non fosse venuto meno nel momento clou, sia dal punto di vista del pathos che di quelle atmosfere orrorifiche così vicine ai gusti di chi ama bazzicare da queste parti.

Francesco Chello

PRO CONTRO
  • Il meccanismo narrativo solletica attenzione e interesse.
  • Inserisce critica sociale anche piuttosto attuale.
  • Manca di climax adeguato.
  • Riferimenti orrorifici blandi e sporadici.
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Valutazione: 6.0/10 (su un totale di 1 voto)
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