Memory Box, la recensione

Dopo una retrospettiva interamente dedicata ai due registi e al loro Libano durante l’ultimo Torino Film Festival, arriva nei cinema Memory Box, terzo lungometraggio di finzione del duo Joana Hadjithomas e Khalil Joreige. Il film si apre con l’arrivo di un pacco a casa delle protagoniste il giorno della vigilia di Natale, il contenuto si scopre essere una serie di fotografie, diari e lettere scritte dalla madre della protagonista durante la guerra del Libano. Il resto della pellicola poi si sviluppa attorno alla riscoperta della memoria della madre da parte della figlia. Qui si avverte da subito l’anima da video artisti del duo libanese, le fotografie osservate dalla figlia prendono vita e diventano esse scene e narrazioni del passato all’interno del film.

Questo è proprio uno dei punti di forza del film, dove viviamo attivamente una serie di eventi che sono in realtà raccontati in maniera passiva, filtrati attraverso vecchie cassette audio, fotografie o note di diario lette e ascoltate dalla protagonista. Ancora più interessante e degno di nota è il fatto che molte delle fotografie, delle lettere e dei passi che vengono letti all’interno del film sono recuperati direttamente dall’archivio personale della regista Joana Hadjithomas. Tant’è che la trama stessa del film è fortemente e liberamente ispirata alle memorie e al vissuto della regista adolescente ai tempi della guerra del Libano.

Per via di questa ispirazione e questa struttura della narrazione si incontrano spesso dei buchi di trama, dei leggeri inciampi di sceneggiatura e in generale sembra che verso il finale la scrittura sia un po’ troppo accelerata e conclusa in maniera approssimativa. Nonostante questo, con Memory Box siamo davanti a un prodotto estremamente interessante come non se ne vedono spesso.

La maniera in cui si racconta l’adolescenza libanese sotto i bombardamenti è estremamente intima e geniale, l’idea di utilizzare le fotografie e le registrazioni audio come transizione dal presente canadese al passato libanese. All’interno del film si abbraccia un racconto della guerra particolarissimo e quasi unico nel suo genere. Oltre al fatto che non venga mai mostrata anche solo una vera e propria scena di guerra, il film non racconta mai di soldati o di scontri a fuoco ma solo di chi, non potendo o non volendo fuggire, rimane nel proprio Paese durante una guerra. I bombardamenti, i parenti morti, la corrente e l’acqua che mancano quotidianamente e l’essere una ragazza adolescente con tutti i problemi che l’essere adolescenti comporta mischiati ai problemi del vivere in una zona di guerra.

L’eterno ritorno di un Libano devastato dalla guerra e le memorie di una terra natia diversa che non sarà mai più come prima sono da sempre i temi di Hadjithomas e Joreige. In questo film il tutto poi funziona perfettamente mescolando in maniera brillante la finzione con memorie, foto e lettere d’archivio della stessa Hadjithomas. Il risultato è un film che riesce a raccontare la guerra senza mai mostrarla e scavando all’interno dei sentimenti. La box di memorie che viene schiusa diventa terreno di riflessione interna per la regista che si ritrova a doversi confrontare con i propri spettri del passato e che cerca costantemente di scacciare dalla propria vita. La guerra in Libano è il leitmotiv delle videoinstallazioni, dei documentari e con questo Memory Box ora anche dei film di finzione del duo libanese che già con il documentario Smyrna del 2016 avevano affrontato in maniera forse troppo personale e autoreferenziale.

Con Memory Box Hadjithomas e Joreige raggiungono finalmente il picco di questo eterno ritorno con un film che nonostante qualche problema di sceneggiatura e ritmo funziona perfettamente, trasmette le giuste emozioni e sensazioni.

Emanuele Colombo

PRO CONTRO
  • Idea di base molto originale.
  • Racconto della guerra molto lontano dal cinema mainstream.
  • Sceneggiatura che a volte mostra problemi strutturali.
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Valutazione: 7.5/10 (su un totale di 2 voti)
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Memory Box, la recensione, 7.5 out of 10 based on 2 ratings

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