Quando eravamo fratelli, la recensione

Le famiglie felici si somigliano tutte, le famiglie infelici lo sono ognuna a modo suo”, diceva Tolstoj in Anna Karenina, molti anni prima di veder fiorire un canone cinematografico così declinato: coming-of-age in cui un giovane inizia a esplorare la propria individualità sessuale e non, processo ostacolato dalla presenza di genitori inaffidabili e periferie americane dall’allure malinconicamente fatiscente.

Uno dei casi più recenti in tal senso è il film Moonlight diretto da Barry Jenkins, il quale cavalca con padronanza quest’ondata di cliché e a cui vola spesso il pensiero guardando Quando eravamo fratelli di Jeremiah Zagar. Ambientato negli anni Novanta e perciò girato in 16mm per dare una veste vintage alla fotografia, il film di Zagar racconta la formazione del piccolo Jonah tra giochi coi fratelli e liti genitoriali furibonde.

Oltre ad alcuni tratti simili per quanto riguarda la storia, il film premio Oscar Moonlight e Quando eravamo fratelli condividono anche un’estetica onirica, rarefatta quasi, in cui sono le immagini a spadroneggiare mentre i dialoghi veri e propri vengono ridotti all’osso. In entrambi i casi sembra trattarsi di una scelta artistica un po’ troppo intenzionata a essere appetibilmente indie e da “festival” (e in effetti l’opera di Zagar ha avuto ottimi riscontri al Sundance), però tra i due film esiste una differenza sostanziale: Quando eravamo fratelli si configura sì come un film decisamente immaginifico, ma in maniera più potente rispetto al lavoro di Barry Jenkins.

A contribuire a questo risultato è stata sicuramente la scelta di inserire i disegni e le pagine del diario di Jonah nel tessuto della narrazione, così da rendere nella maniera più vivida e concreta possibile la crescita in itinere del giovane protagonista, da cui tutto nasce e si dipana: si può dire, infatti, che il film stesso è Jonah, in quanto ogni scena è filtrata dai suoi occhi e costruita in base a tutte le sue percezioni sensoriali. L’estate di Jonah diventa così la nostra estate, tanto che l’afa estiva e il rumore delle cicale sembrano trascendere lo schermo; la matita che gratta nervosamente sul suo diario, invece, ci comunica l’urgenza che ha Jonah di esprimersi lontano dalla sua famiglia, un bozzolo che lo sa proteggere quanto soffocare.

E il regista di Quando eravamo fratelli restituisce efficacemente questa dualità, traducendo per immagini più e più volte i sentimenti contrastanti che Jonah prova per i suoi genitori; una su tutte rimane più impressa, ed è quella in cui Jonah, addormentato sulle gambe del padre che lo cinge teneramente col braccio, sta sognando di quando lo stesso genitore lo lasciò quasi annegare per “insegnargli” come si nuota. Quest’ultima scena intercorre come leitmotiv per tutto il film, e, sempre per mostrare le sfumature che contraddistinguono qualsiasi esistenza, spesso viene usata anche quando Jonah si lancia a capofitto in una nuova impresa che lo fa sentire anche euforico, e non solo spaventato.

Se dunque Quando eravamo fratelli appare di primo acchito come opera dalla lettura superficiale, a poco a poco si svela, fino a mostrare la sua vera natura caleidoscopica. Come è del resto la realtà stessa che ci circonda, e che Zagar ha provato a ritrarre con successo nel suo film.

Giulia Sinceri

PRO CONTRO
Un film decisamente immaginifico, sì, ma potente e vivido. Appartiene a un canone un po’ troppo inflazionato, ormai.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Quando eravamo fratelli, la recensione, 7.0 out of 10 based on 1 rating

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