L’estate addosso, la recensione
Avete presente quando volete fare una fotocopia ma desiderate far entrare due pagine di un libro nello stesso foglio, ecco L’Estate Addosso, l’ultimo film scritto e diretto da Gabriele Muccino, vuole fare esattamente questo.
È l’estate della maturità, Marco è rimasto bloccato a Roma a causa di un incidente stradale e, come ci ricorda il film, passare il periodo estivo nella capitale non è roseo come molti affermano. Con il rimborso dell’assicurazione, Marco decide di partire alla volta di San Francisco. Con suo disappunto e sorpresa, Maria, la bigotta della sua classe, sarà la sua compagna di viaggio; i due ragazzi saranno ospiti di Matt e Paul, una giovane coppia gay.
Dopo la parentesi americana (Quello che so sull’amore, Padri e figlie), Muccino ritorna alle origini, a quel genere di film più drammatico che melodrammatico, ricco di nostalgia per sentimenti e tempi passati in cui la commedia ha un ruolo minimo.
Collocato spazialmente tra la sua patria natia e quella di adozione artistica (dicotomia sottolineata anche dalla doppia lingua in cui il film è stato girato), L’Estate Addosso rimane completamente bloccato a livello temporale: la struttura narrativa basata su un triangolo amoroso di sentimenti non corrisposti non solo risulta già vista e rivista ma non sfrutta possibili tematiche contemporanee a riguardo. Anagraficamente nel 2016 ma fermo al 1990.
I rapporti instaurati tra la coppia di ragazzi e i due perfetti sconosciuti si evolvono in maniera ingiustificata, con una instabilità emotiva non accettabile neanche per la tipica bipolarità adolescenziale. Si passa da “pervertito” a migliori amici (e qualcosa di più) con uno schiocco di dita. Le tematiche LGBT sembrano essere buttate un po’ alla rinfusa (forse perché attualmente in tendenza): la coppia di ragazzi possiede una storia narrativamente convincente che, però, non riesce a diventare interessante a causa dei dialoghi poveri, ripetitivi e dai toni irrealistici.
Nonostante il fiume immenso di parole, la cosa che manca a questi personaggi sono le motivazioni: il film dice tanto ma comunica molto poco, spiega con le parole ogni minimo sentimento mentre alcune scene (anche apprezzabili) avevano bisogno solo di un po’ di silenzio in più. Coronazione di questa presenza massiccia di frasi superflue e ridondanti, è la voice over del protagonista la quale non approfondisce la sua psicologia (perché questo diciottenne pensa già alla morte?), ma si limita a descrivere quello che vediamo come un commentatore del tg.
La regia tipicamente mucciniana ama le porte per muoversi in ambienti contigui e l’alternanza di interni ed esterni con paesaggi paradisiaci e manieristici che portano, involontariamente, a considerare quanto la ricchezza sia alla base della felicità di questi giovani.
Con questo film, Muccino vuole tenere un piede in due scarpe (tornando all’esempio dell’incipit): sembra prendere la semplicità tipica dei teen movie e mantenere degli accenni a tematiche più importanti e profonde, pone in rapporto la cultura e gli stereotipi italiani a quelli americani (un paio di dialoghi piacevoli a riguardo, magari il film si fosse concentrato di più su quest’aspetto) ma senza far dialogare questi due culture che si piacciono e si innamorano così profondamente.
Muccino prova ad essere giovane per sentire ancora l’estate addosso descritta da Jovanotti, ma questa pellicola non gli permette di essere né giovane né adulto, rimanendo una fotocopia sbiadita di se stesso.
Matteo Illiano
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