Abel – Il figlio del vento, la recensione

Raccontare una favola può essere solo in apparenza un’operazione facile, una formalità da espletare quando si è genitori o si ha a che a fare con bambini piccoli. Nulla di così sbagliato. La favola, al contrario, è una forma di narrazione tanto piacevole e solleticante quanto complessa poiché portatrice di sentimenti e valori veri quali l’amicizia, la lealtà, il non smettere mai di sognare e tanti altri. Un po’ quello che rappresenta anche Abel – Il figlio del vento della strana coppia Gerardo Olivares e Otmar Penk, rispettivamente spagnolo e austriaco, che propongono una favola che sfrutta un canovaccio ben consolidato, come il rapporto tra un bambino e un animale, per raccontare una storia che esalta l’amore a tutto tondo, quello fraterno o tra padre e figlio, inteso dunque nella sua totalità. Il risultato è nel complesso più che soddisfacente perché la pellicola, pur tra tanti difetti che riguardano l’aspetto narrativo, riesce comunque a colpire nel segno e regalare emozioni forti e dolci grazie ad un comparto visivo strabiliante e curato in ogni dettaglio.

Siamo sulle Alpi negli anni Sessanta. In un nido di aquile due piccoli cuccioli fratelli combattono fra loro per il ruolo di erede al regno e al termine della lotta il più piccolo e debole dei due viene scaraventato giù nella foresta. Impaurito e spaesato, l’aquilotto viene ritrovato da Lukas, un ragazzino ancora sconvolto dalla morte della madre e in pessimi rapporti con il padre, il quale accudisce l’animale, gli insegna a volare e gli dà il nome Abel. È solo l’inizio di una commuovente ed emozionante amicizia che sfiderà qualsiasi tipo di ostacolo e il naturale corso del tempo.

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Abel – Il figlio del vento mostra fin dalle prime battute la classica struttura della favola: una voce fuori campo che introduce la storia con il più classico dei “C’era un volta”, un paesaggio incantato e rassicurante, un mondo sereno nel quale crescono i cuccioli di aquila e, soprattutto, un’immediata e netta demarcazione tra personaggi positivi e negativi. Questi ultimi ruotano tutti intorno al personaggio di Lukas: le figure del padre severo e del generoso guardaboschi, infatti, rappresentano i due estremi del mondo affettivo del ragazzino che vede nel personaggio del vecchio guardiano una figura di riferimento che colma i vuoti lasciati dal rapporto precario col suo padre naturale. Un mondo da cui evadere e volare via, come accade al piccolo Abel il quale troppo presto rimane prigioniero delle dinamiche di una famiglia regale ed è costretto ad affrontare la vita da solo. Due percorsi di crescita che accomunano Lukas e Abel che però restano ingarbugliati all’interno di una storia che manca di un elemento fondamentale all’interno di una fiaba, ossia una situazione che metta a serio rischio gli equilibri iniziali, e soprattutto è esente di un antagonista degno di nota, data la scarsa caratterizzazione del padre, interpretato da Tobias Moretti.

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Impeccabile davvero appare la componente visiva che può far leva su intere sequenze di puro stampo documentaristico come paesaggi spettacolari, inquadrature ravvicinate degli animali e addirittura scene di lotta ad alta quota tra aquile o la cattura di prede. Un suggestivo spettacolo per gli occhi che, a conti fatti, contribuisce a creare tante emozioni ed empatia con lo spettatore anche grazie alla ottima interpretazione del giovane Manuel Camacho il quale, affiancato da Jean Reno, conquista la scena insieme al piccolo aquilotto.

Vincenzo de Divitiis

PRO CONTRO
  • Componente visiva molto suggestiva.
  • Cast all’altezza della situazione.
  • Buon grado di empatia con lo spettatore.
  • La storia manca di un vero e proprio cattivo o situazione pericolosa.
  • Il cattivo della storia è poco caratterizzato e marcato.
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Valutazione: 6.0/10 (su un totale di 1 voto)
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