Adagio, la recensione
C’era una volta Roma e la sua criminalità, una criminalità idealizzata, perfino mitizzata, con quella nota romantica che trasforma in antieroi quegli assassini, rapinatori, spacciatori e strozzini su cui la cronaca nera ha fatto la sua fortuna. Quella Roma, oggi, non c’è più, la criminalità si è trasformata, ha cambiato faccia, e quel confine netto tra legale e illegale, giusto e sbagliato, si è sfumato al punto tale che a delinquere nella legalità sono le istituzioni che dovrebbero proteggere il cittadino. In questo contesto, in cui una politica viziosa e amorale corrompe l’innocenza e i tutori della legge non si fanno scrupoli a ricattare e uccidere, la criminalità di un tempo è solo un ricordo, un ricordo che si carica ulteriormente di mito, di fascino, quasi a sorpassare la fama intrisa di terrore su cui ha costruito la sua immagine. In questo spazio grigio dove il Bene e il Male si confondono abilmente nasce Adagio, il nuovo crime di Stefano Sollima che va idealmente a chiudere un discorso nato nel 2008 con la serie in due stagioni Romanzo Criminale, che raccontava la Banda della Magliana attraverso i personaggi creati da Giancarlo De Cataldo, e proseguita nel 2015 con Suburra.
È come se si trattasse di una lunga storia in tre atti che esplora la nascita della criminalità organizzata romana nel passato, prosegue raccontandone l’evoluzione nel presente, con la contaminazione sempre più epidermica con le istituzioni, e si conclude in uno scenario distopico pre-apocalittico in cui sono proprio le istituzioni ad essere diventate la nuova criminalità organizzata, con i vecchi boss ormai in pensione, attanti dormienti che non dovrebbero essere svegliati, pena lo scardinamento del nuovo equilibrio.
Ed è proprio quello che accade in Adagio, splendido canto del cigno sull’epopea criminale rappresentata dalla Banda della Magliana, che in questo caso è solo un lontano ricordo dal sapore quasi leggendario, così come lo sono Daytona, Polniuman e Cammello, feroci criminali del passato che vivono nelle storie che si tramandano in quegli ambienti, dei veri e propri archetipi di un immaginario ormai profondamente trasformato. Un ricordo, appunto, di temibili criminali che il tempo ha impietosamente ridefinito e trasformato in vecchi, malati e indifesi.
In questo contesto si sviluppa la storia di Manuel, un giovane spacciatore beccato dai carabinieri che finisce ricattato dagli stessi tutori della legge che vogliono utilizzarlo per incastrare un politico pedofilo e cocainomane. Ma il terzetto di carabinieri, capeggiato da Vasco, non sa che Manuel è il figlio di Daytona, ex esponente della Banda della Magliana ormai pentito e affetto da demenza senile. Il ragazzo, preso dal panico, manda a monte l’operazione dei carabinieri in cui era invischiato e cerca aiuto a casa di Polniuman, ex socio di suo padre, ormai cieco, che lo manda a rifugiarsi dall’amico Cammello, che però con Daytona ha un conto in sospeso.
Da qui si sviluppa l’articolato intreccio di Adagio che vede il ritorno in azione della vecchia guardia criminale, un ritorno non volontario ma spinto dal susseguirsi degli eventi, un regolamento di conti a posteriori, come se i “veri padroni” di Roma fossero chiamati a rivendicare quel che si sono guadagnati con gli anni contro un usurpatore che non ha regole e morale. Le parti sono invertire: il vecchio crimine è chiamato a ristabilire l’ordine minacciato proprio da chi quell’ordine dovrebbe promuoverlo e farlo rispettare.
Sollima dirige e scrive, insieme a Stefano Bises, un crime che ha il sapore epico di un western metropolitano. Il ritmo, come suggerisce lo stesso titolo, si inserisce tra l’andante e il largo, sa prendersi suo tempo – senza risultare mai lento – per raccontare una storia semplice popolata da personaggi complessi. Il terzetto composto da Daytona (Toni Servillo), Polniuman (Valerio Mastandrea) e Cammello (Pierfrancesco Favino) si districa in un ampio raggio di sfumature in cui la rassegnazione, il rancore, la cattiveria e la generosità si alternano e si dipanano da personaggio in personaggio, come se si trattasse di un’Idra a tre teste ognuna delle quali rappresenta un aspetto differente dell’essere umano.
Di contro, ci sono le forze dell’ordine, questi carabinieri che si muovono nell’illegalità, che ricattano e uccidono (quasi) senza scrupoli, capeggiati da un massiccio Adriano Giannini alle prese con una delle sue migliori interpretazioni, un amorevole padre di famiglia che nasconde una doppia personalità terrificante e spietata.
Attorno a tutti loro c’è una Roma sull’orlo del collasso, distrutta dal cambiamento climatico, avvolta dalle fiamme, soggetta a piogge di cenere e afflitta dal caldo e dai continui blackout causati probabilmente dall’eccessivo uso di condizionatori. Soprattutto, però, c’è Manuel, interpretato dall’ottimo Gianmarco Franchini, esponente di quell’umanità in divenire nelle cui mani è riposto il futuro e che dovrà scegliere se essere guardia o esser ladro, o magari nessuno dei due.
Con la maestria registica che ormai lo contraddistingue, Sollima dà vita a uno dei migliori film italiani del 2023, un thriller crepuscolare che sa inquadrare in modo inquietante e originale la geografia urbana della Capitale. Un’opera asciutta e avvincente, dal taglio internazionale (c’è la Bigelow di Strange Days, il Collateral di Michael Mann ma anche una clamorosa citazione a Carlito’s Way di De Palma) e avvalorata da un cast in stato di grazia.
Roberto Giacomelli
PRO | CONTRO |
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Ottima recensione che condivido, Sollima è veramente il nostro MAESTRO del noir, e questo film, seppur imperfetto e con qualche problemino qua e la è comunque una pellicola di grande impatto che regala dei personaggi memorabili interpretati da attori in stato di grazia, su tutti Favino, che è veramente il nostro Robert De Niro.
Sollima RULES, grande attesa per la serie tv sul mostro di Firenze.