Allied – Un’ombra nascosta, la recensione
Nel 1942 – in pieno secondo conflitto mondiale – la spia canadese Max Vatan (Brad Pitt) incontra a Casablanca la collega francese Marianne Beausejour (Marion Cotillard) per compiere una pericolosa missione: uccidere un ambasciatore tedesco. I due, che per copertura devono fingersi marito e moglie, si ritroveranno di lì a poco uniti da un reale sentimento d’amore, al punto da diventare davvero una famiglia.
Uno scomodo e gravissimo sospetto, le cui conseguenze sarebbero tragicamente irreversibili, turberà tuttavia l’armonia del loro rapporto…
Il regista Robert Zemeckis – che ha firmato cult quali la saga di Ritorno al Futuro, l’irresistibile commedia La morte ti fa bella e il toccante Forrest Gump – alla soglia dei 65 anni comincia a perder colpi.
Allied – Un’ombra nascosta, infatti, non entrerà certamente nell’Olimpo delle pellicole da ricordare nella ricca filmografia del cineasta americano.
Si tratta di un film molto curato dal punto di vista tecnico: i costumi, la fotografia e la colonna sonora sono un piacere per i sensi e le scene d’azione sono ben orchestrate e coinvolgenti. A questi pregi, però, corrispondono una serie di punti deboli.
La prima parte ambientata in Marocco, un vero e proprio thriller spionistico, funziona piuttosto bene grazie a una discreta dose di suspance e all’alchimia tra i due ottimi protagonisti. È un peccato che la seconda macrosequenza londinese, al contrario, degeneri in un lento e prevedibile piattume, a metà tra il dramma sentimentale e l’investigazione. Il drastico cambio di stile non è certo sostenuto dalla narrazione classica, lineare e, purtroppo, anonima. E questa, visto l’importante personalità che ha diretto il film, è una pecca piuttosto seria.
Cosa salvare, dunque? Le dinamiche che portano i due protagonisti a innamorarsi, giocate su dialoghi ben scritti e un ritmo sostenuto; le già citate scene dell’attentato all’ambasciatore. Ma, nel complesso, lo spettatore non potrà non rendersi conto della perdita di grinta e di originalità della sceneggiatura mano a mano che ci si avvicina all’inevitabile e zuccheroso epilogo.
Restano una serie di domande: cosa esattamente voleva comunicare Zemeckis attraverso un film di questo tipo? Rispolverare e aggiornare il cinema classico? Dimostrare che l’amore non si può fingere, neanche se mistificare è il tuo mestiere?
Perché il regista di Chi ha incastrato Roger Rabbit? ha creduto che ci fosse davvero il bisogno di raccontare una storia, di fatto, vista e stravista?
Anche i più grandi, non si può negare, compiono dei passi falsi. Zemeckis stavolta ha perso la sfida; noi premiamo l’audacia e lo rimandiamo alla prossima impresa cinematografica.
Chiara Carnà
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