American Gods: ovvero, non si può essere più gaimaniani di Neil Gaiman

All’inizio del 2017 tutti i geeks del web erano in trepidazione per l’imminente uscita della saga-evento American Gods, ispirata al pluripremiato romanzo dell’autore di culto Neil Gaiman e prodotta dalla sempre più intraprendente Amazon Prime Video; nessuno si sarebbe aspettato che al concludersi della terza stagione, ad aprile 2021, i produttori annunciassero che lo show non sarebbe stato rinnovato per una quarta stagione e che il finale, atteso da quei pochi fans rimasti sino alla fine, potrebbe consistere in un film per l’home video o in un mini-serie.

Non se lo aspettava nessuno che non avesse, appunto, visto tutte e tre le stagioni del lavoro di Bryan Fuller (Heroes, Hannibal, Star Trek) e Michael Green (Logan – The Wolverine, Smallville, Kings). Le premesse erano davvero “mitiche”: il giovane Shadow Moon (Ricky Whittle) è appena uscito dal carcere quando scopre che la sua amatissima moglie Laura (Emily Browning)  è morta in un incidente stradale mentre lo tradiva col suo migliore amico Robbie; non avendo più nulla al mondo, accoglie su due piedi l’offerta di un misterioso signore che si fa chiamare Mr. Wednesday  (Ian McShane) e, facendogli da autista e bodyguard, lo segue in giro per gli Stati Uniti a cercare “alleati” per una lotta contro una misteriosa organizzazione guidata da altrettanti enigmatici personaggi quali Mr. World (Crispin Glover) Media (Gillian Anderson) e Techno Boy (Bruce Langlay). Già al secondo episodio il poco incredulo Shadow comincia a capire che i bizzarri vegliardi a cui Wednesday dà la caccia hanno qualcosa fuori dal comune; dopo mazze che perdono sangue, lune che diventano monete, apparizioni della sua defunta moglie e leprecauni sfortunati, viene a scoprire che la simpatica canaglia che lo ha ingaggiato altri non è che il dio norreno Odino, intento in una titanica guerra contro le nuove divinità del progresso.

American Gods

La frizzante cornice da road trip della prima stagione sparisce con l’avvento della seconda e della terza in cui l’azione si focalizza attorno a dei luoghi precisi: la casa del dio della morte egizio Mr. Ibis, in Illinois, – a cui convengono le divinità africane Anansi (Orlando Jones) e Bilquis (Yetide Badaki), il leprecauno Mad Sweeney (Pablo Schreiber) e la rediviva Laura Moon- e la fredda cittadina di Lakeside. Tutti coloro che amano Gaiman si aspettano una narrazione character driven, con personaggi un po’ dark che scommettono su guerre celesti manco fossero il torneo di bocce dei vecchi del quartiere, ma gli sceneggiatori hanno voluto essere più gaimaniani di Gaiman e quindi hanno gonfiato all’estremo i dialoghi e ridotto tutte le sotto-trame ad allegorie quasi del tutto incomprensibili.

Il personaggio di Shadow riesce vagamente ad attirare l’attenzione solo grazie all’avvenente aspetto dell’attore che lo interpreta, mentre quello dell’antipaticissima moglie fedifraga fa un percorso di introspezione e resurrezione abbastanza avvincente, anche se ci saremmo risparmiati volentieri l’episodio alla “Nuovo Cinema Purgatorio”; della storyline di Bilquis invece ancora nessuna traccia di senso logico.

American Gods

Tutto lo scorrere di chiacchiere meditabonde dei personaggi secondari fa desiderare visceralmente la presenza dei divini Ian McShane e Orlando Jones: l’uno col suo sguardo pungente e la maestosa ponderatezza è un credibilissimo quanto moderno Padre Celeste norreno e l’altro è riuscito a fondere gli atteggiamenti di un magnaccia del ghetto con la personalità del trickster più leggendario dell’Africa Occidentale. I cattivi non sono comunque da meno, Mr. World è un villain abbastanza tradizionale ma che fa venire dei brividi abbastanza credibili e Techno Boy cerca di stargli al passo per trovare anch’esso il proprio posto nel mondo.

Nei vari prologhi che stanno all’inizio di ogni episodio è evidente l’imbastitura gaimaniana originaria: American Gods è un’odissea multisfaccettata di storie che parlano di immigrati di ieri e di oggi che hanno dovuto,  e devono, sopravvivere in un mondo meschino e che possono andare avanti solo ricordando da dove vengono e per cosa sono partiti.

American Gods

Lo sguardo dissacrante del vecchio Neil, che mette divinità in sudici appartamenti di Chicago o addirittura pestate in retate della polizia, è forse incarnato più da quello della spregiudicata Laura Moon che dall’ambizioso Odino; di certo è presente nella fotografia fosca che attornia tutte le sagome dei personaggi e dalle inquadrature che accentuano i particolari più crudi della maggior parte delle scene.

Suona male dire che American Gods è stata un’occasione sprecata, si potrebbe dire che è stata un primo esperimento, tecnico e stilistico, verso una serialità sempre più vicina allo spessore culturale che al momento solo i grandi romanzi sanno ancora dare.

Ilaria Condemi de Felice

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