Atlanta: il “black lives matter” secondo Donald Glover

Mai come in questo periodo la creazione di Donald Glover, Atlanta, è incredibilmente attuale.

Pur essendo una serie la cui prima stagione risale al 2016, le tematiche di disparità razziale che evidenzia sono sempre le stesse che hanno smosso le recenti proteste mondiali a seguito dell’assassinio di George Floyd.

La serie racconta la storia di Earn Marks (Donald Glover stesso) che, dopo aver abbandonato Princeton, si trova al verde e decide di diventare il manager del cugino, Alfred, all’inizio della sua carriera da rapper. Vedremo quindi una manciata di personaggi cercare in ogni modo di avere successo ma anche semplicemente di fare soldi. Quella è la priorità principale dei protagonisti, abitanti dei sobborghi di Atlanta (città con il 54% di afroamericani), città natale dello stesso Glover.

La storia che si racconta è la storia di persone essenzialmente povere che cercano nei modi più svariati di sopravvivere: c’è Vanessa “Van” (Zazie Beetz) ex ragazza di Earn e madre della loro bambina di tre anni, persona concreta e coi piedi per terra, in continua lotta con il protagonista per cercare di renderlo più responsabile e partecipe della crescita della figlia mentre allo stesso tempo lavora e si prende cura della piccola; Alfred (Brian Tyree Henry), cugino rapper di Earn, più addentro le dinamiche dei sobborghi e alle prime prese con la fama; Darius (Lakeith Stanfield) coinquilino di Alfred, personaggio stranamente zen e distaccato, capace di fare soldi nei modi più assurdi, con grande disappunto di Earn; e infine Earn, ragazzo notevolmente intelligente ma incapace di mettere a frutto i suoi talenti e soprattutto di sfruttare le dinamiche interne della comunità a suo vantaggio.

Atlanta non è una serie didascalica, non viene imboccata allo spettatore nessun tipo di retorica, viene semplicemente mostrato un mondo e come chi ne faccia parte ne subisca le dinamiche. E la lettura di questo mondo che ne dà Glover è incredibile: riesce a trasmettere quella sensazione di surrealismo e “stranezza” che in realtà fanno parte della vita di tutti i giorni. Il racconto posticcio che ci viene restituito solitamente dalle serie è il disegno di una realtà standard su cui è possibile poi incollare a piacimento qualsiasi argomento, ma che alla fine non ha nessun collegamento con il mondo reale, proprio a causa della sua vaghezza.

Atlanta

Atlanta non si preoccupa di lasciare fuori dal quadro eventi ridicoli, assurdi, imbarazzanti, piccoli particolari per cui è difficile capire se siano buffi o inquietanti, essi “sono” e basta. E questo rispecchia non solo la realtà in cui viviamo ma ancor di più quella degli afroamericani: una realtà in cui tutto può sembrare normale ma in cui resta sempre un sottofondo di stranezza, se non peggio quando non sfocia direttamente in una sensazione di minaccia. Lo vediamo molto bene nelle puntate soprattutto dedicate ad Alfred nella seconda stagione, dove spesso viene attaccato, minacciato, rapinato proprio in virtù della sua nuova fama.

Ci si potrebbe aspettare che diventare un personaggio pubblico in una comunità povera possa aiutare ad elevarti, a metterti al sicuro, ma quello che impariamo è molto diverso: l’essere stato messo in luce lo ha semplicemente reso più visibile, sia in senso positivo che in senso negativo; e nel suo tentativo di sollevarsi trova intorno a sé una folla di gente pronta a chiedergli di portarli con lui e allo stesso tempo che cerca di tirarlo ancora in basso con loro.

Non c’è pietà in questa lotta continua per emergere e Alfred lo capisce bene, mentre Earn fatica a comprenderlo.

La differenza che emerge fra i due cugini, è la stessa (come è mostrato nella puntata FUBU) che li ha accompagnati da tutta la vita. Earn fin da bambino, in virtù della sua grande intelligenza, è continuamente spinto verso l’esterno, verso l’alto, al di fuori del “ghetto”, e a causa di questa direzione della sua vita, acquista un modo di interpretare il mondo che va ben oltre le dinamiche di favori e di violenza della sua comunità: uno sguardo molto più ampio che gli permette di vedere il marcio, i soprusi, i piccoli e grandi atti di razzismo di cui ognuna delle loro vite è costellata giornalmente. Earn, pieno della sua speranza in una vita diversa, non accetta la mediocrità di quella presente, e combattendola invece di aggirarla finisce sempre per fallire, scontrandosi con coloro per cui quella realtà è la normalità. Alfred d’altra parte è perfettamente integrato nelle dinamiche della sua società e sa come comportarsi per uscirne vincente: e purtroppo alla fine ne risulta sempre una guerra tra poveri.

I posti riservati in alto a persone dell’estrazione e del colore della pelle di Earn e Alfred sono pochi e l’unica speranza che hanno coloro che stanno in basso per arrivarci è schiacciare la concorrenza.

Atlanta

L’ultima puntata della seconda stagione culmina con la realizzazione dei due cugini di questa sgradevole verità, e di come essi siano inscindibilmente legati l’uno all’altro perché parte della stessa famiglia e quindi disposti a tutto pur di sostenersi. Il quadro che ne risulta è amaro, una legge della giungla dove ogni passo è conquistato con fatica e dove le leggi del mondo “occidentale” (=bianco) non contano allo stesso modo. E pur essendo doloroso, questo modo di vivere esiste, e quello che ci chiede semplicemente Glover con Atlanta è di guardarlo, sentirlo e cercare di interiorizzarlo. Provare a capire, a questo punto, è davvero il minimo.

Silvia Biagini

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