Benedetta, la recensione
In un periodo storico in cui il passato dell’immaginario pop(olare) torna in voga, facendosi cult e lanciando nuove tendenze, l’ottantacinquenne Paul Verhoeven non insegue alcuna moda ma rimane fermamente legato alla sua idea di cinema di genere fieramente autoriale. Così, mentre altrove si inseguono gli anni ’80 e ’90, il regista di RoboCop e Atto di forza fa un balzo indietro di almeno un altro decennio e riesuma il filone conventurale, volgarmente conosciuto come nunsploitation, e firma Benedetta, un film così potente e anticonvenzionale da risultare completamente estraneo a qualsiasi logica produttiva contemporanea.
Ispirato al celebre saggio Atti impuri – Vita di una monaca lesbica nell’Italia del Rinascimento, pubblicato da Judith C. Brown nel 1986, Benedetta racconta la controversa vicenda di Benedetta Carlini, entrata in convento da bambina perché mossa da una forte vocazione e presto capace di attirare l’attenzione su di sé.
Siamo nel XVII secolo in Italia. Assecondata dalla sua facoltosa famiglia, Benedetta entra in convento, nell’ordine delle Teatine di Pescia, perché frequentemente colta da visioni mistiche che la avvicinano a Gesù, fino a convincersi di essere la sua promessa sposa. Questo stato di “privilegio” si nota già quando la bambina rimane “miracolosamente” incolume dopo essere stata schiacciata da una statua della Madonna mentre pregava, ma nonostante il clamore delle suore, la badessa ci va cauta affermando che “i miracoli non valgono i guai che causano”. Ha ragione, ma crescendo Benedetta continua a circondarsi di “miracoli”, come le stimmate che si materializzano durante la notte sulle sue mani, i piedi e sul costato. A mettere un’ombra sullo status di santità di Benedetta è però la presenza di Bartolomea, una ragazza vittima di violenza incestuosa che trova riparo nel convento e instaura subito con lei un particolare rapporto di complicità, che ben presto si trasforma in vera e propria passione amorosa. Nel frattempo, la peste si fa strada di paese in paese, una inquietante cometa rosso sangue si materializza sui cieli di Pescia e una suora si suicida.
Con una carriera magnifica alle spalle che ha spesso portato al centro delle sue storie personaggi femminili forti, audaci ed emancipati (Basic Instinct, Showgirls, Black Book, Elle), Paul Verhoeven decide di affrontare un argomento scabroso come la fede religiosa inquadrando un altro bellissimo personaggio, una suora intelligente e lungimirante che si muove con abilità tra le sfere del potere ecclesiastico dell’epoca rinascimentale. Quello di Benedetta è un personaggio indecifrabile perché costantemente avvolto da una doppia veste, sacra e profana: fervente credente e realmente miracolata oppure ciarlatana incredibilmente audace e manipolatoria? La sceneggiatura scritta dallo stesso Verhoeven insieme a David Birke, con il quale aveva già firmato lo script di Elle, non ci vuole dare riposte ma viaggia costantemente su questo due binari fornendo un ritratto di Benedetta enigmatico e incredibilmente affascinante, quasi ipnotico, grazie alla fermezza, all’intelligenza e alla bellezza di questa donna interpretata con grandissima partecipazione da Virginie Efira, sicuramente nel ruolo più complesso di tutta la sua carriera.
Ovviamente, come gli scritti storici testimoniano con dovizia di particolari, a fare notizia in maniera massiccia non sono stati tanto i miracoli di Benedetta quanto la sua relazione omosessuale con una novizia, tale Bartolomea, che nel film è interpretata da un altrettanto bravissima Daphne Patakia. Quest’ultima capisce che Benedetta è la chiave per raggiungere il successo e come una novella Nomi di Showgirls si lega a lei sessualmente facendole scoprire i piaceri della carne e dell’amore saffico. Qui si apre un’ulteriore doppia lettura che può favorire un sentimento genuino tra le due donne oppure un gioco di seduzione mirato ad un secondo fine. Fatto sta che la relazione, una volta scoperta, non porta a niente di buono per entrambe le donne e Benedetta viene accusata di blasfemia, eresia e bestialità.
Verhoeven gioca con tutti gli elementi topici del filone nunsploitation puntando tantissimo sull’elemento erotico, ma andando anche a inserire nel film altri piccoli segnali che ci dicono quanto la sua opera sia fieramente di genere. E così ci sono improvvisi scatti di violenza, anche tendenti allo splatter, momenti di tortura inquisitoria tipici del filone e anche visioni mistiche talmente eccessive e grottesche da svelare subito il loro intento satirico. Perché, volendo, Benedetta è anche e soprattutto un grande affresco satirico delle contraddizioni della Chiesa, una Chiesa opulenta, lussuriosa e iconoclasta pronta a puntare il dito verso il prossimo. Questo lo vediamo, oltre che nel contesto narrativo generale, nei personaggi del Vicario interpretato da Lambert Wilson e della Madre Badessa portata in scena da una grande Charlotte Rampling, personaggio che sintetizza alla perfezione vizi e virtù dell’ambiente ecclesiastico dipinto da Verhoeven. E non dimentichiamo che il regista, di famiglia cattolica ma ateo da sempre, non ha mai negato il suo interesse per l’iconografia religiosa, tanto che RoboCop, il suo film più celebre, costruisce sul poliziotto Murphy un velato parallelismo cristologico con una crocifissione mortale, una resurrezione e uno stuolo di “superpoteri” divini niente male.
Rifacendosi a più riprese a solidi esempi di cinema conventurale d’autore, come Madre Giovanna degli angeli di Jerzy Kawalerowicz e I diavoli di Ken Russell, con Benedetta Paul Verhoeven realizza un film anomalo per gli anni 2000, libero e affascinante, provocatorio e intelligente nel portare avanti con ambiguità una tesi che umanizza la fede. Al Festival di Cannes, dove è stato presentato in concorso nel 2021, Benedetta ha destato scandalo, come era prevedibile che accadesse, ora arriva anche in Italia, dal 2 marzo 2023 distribuito al cinema da Movies Inspired.
Roberto Giacomelli
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