Caffè, la recensione

Dire “globalizzazione” non è mai semplice: una parola lunga, dal suono complesso e dalle molte Z, mette paura anche quando dovrebbe dare sicurezza. Per tutti questi motivi, il regista Cristiano Bortone decide di sostituirla con un termine più semplice e immediato come Caffè, titolo del suo ultimo film presentato alle Giornate degli Autori al 73esimo Festival del Cinema di Venezia.
Prima coproduzione tra Italia e Cina, il film racconta tre storie localizzate in diverse nazioni accumunate dall’unico fil rouge che si ritrova proprio nella bevanda energizzante più famosa del mondo. Il regista costruisce una struttura multipiano, in stile Babel, in cui Italia, Belgio e Cina non si incontrano mai a livello narrativo ma hanno qualcosa di più profondo in comune: i problemi. Se il punto di congiunzione a livello simbolico è il caffè, le (troppe) tematiche affrontate sono di grande attualità: emigrazione, disoccupazione giovanile, ingiustizia sociale e razzismo.
Passando dal Belgio alla provincia dello Yunnan fino ad arrivare a Trieste, gli attori hanno tempi e modalità recitative diverse (aspetto notevolmente affascinante) ma i personaggi sembrano tutti impegnati in una folle e disperata corsa per avere un po’ di denaro.
Il risultato è uno sguardo universale in cui le differenze di nazionalità si annullano a favore di qualcosa di più intimo che si avvicina all’essere umano; il desiderio principale del film è quello di fotografare i problemi del nostro tempo con una voglia di riscatto che accomuna tutti i protagonisti. In questo sfondo, il caffè apre, chiude e accompagna le storie come una presenza onnipresente ma mai opprimente.
La sceneggiatura è in grado di rendere queste vite così spazialmente lontane eppure a un semplice clic di distanza: grazie al mondo globalizzato, un oggetto riesce a unire due parti del mondo e anche un solo chicco di caffè può rovinare o far rinascere una vita.
In un racconto corale sfaccettato e coraggioso, notiamo con un po’ di rammarico che la storia italiana risulta quella meno riuscita: nell’Italia colpita dalla crisi economica, Renzo, appassionato sommelier di caffè, è un ottimo punto di partenza ma, nel corso della pellicola, non riusciamo a conoscerlo e capirlo fino in fondo. Ennio Fantastichini, seppur bravo, non salva la situazione con il suo personaggio dai tratti grotteschi.
La cosa che manca alla pellicola è un’omogeneità di ritmo: la tensione portata avanti nella prima parte della storia genera un climax finale eccessivo, e si estremizzano alcune situazioni, anche dove non sarebbe stato necessario.
Caffè è un’amara metafora della vita, forte eppure così ricca di sfumature diverse esattamente come la bevanda da cui prende il titolo. Essere universale e intimo nelle stesse sequenze è qualcosa di molto difficile da ricreare sul grande schermo (vedi Crash), Caffè si è avvicinato a questo obiettivo ma non lo ha padroneggiato del tutto.
Matteo Illiano
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