Cam, la recensione
La giovane Alice, per fare soldi nel modo più semplice e rapido possibile, ha scelto di sfruttare il suo corpo sexy per diventare una cam-girl. La giovane è iscritta ad un sito nel quale i fruitori (tutti sotto le mentite spoglie di un nickname) possono comunicare con lei in diretta tramite una chat e, nel tentativo di scalare la classifica, inizia a realizzare dei mini snuff movie (ovviamente fittizi). Il repertorio comprende falsi suicidi e auto mutilazioni.
L’obiettivo di Alice è raggiungere il cinquantesimo posto, ovvero il piazzamento minimo per essere considerata una cam-girl di livello. La madre e i parenti sono totalmente all’oscuro di questa sua attività, e riesce ad evitare qualsiasi contatto con gli utenti che giornalmente intasano la sua chat. Un giorno però, si accorge che qualcuno le ha rubato l’identità e che il suo account risulta inaccessibile. Questo doppelgänger cibernetico, inoltre, riesce a scalare la classifica di gradimento con una velocità impressionante…
L’horror ai tempi di Black Mirror, che poi non sono altro che i nostri tempi. Il film di Daniel Goldhaber ci sbatte in faccia la paura più grande del nostro secolo: non più mostri, vampiri o serial killer, il terrore del Ventunesimo secolo è un nostro avatar clone che ci ruba tutto. Contatti, chat, numeri di conto e quant’altro la rete possa celare di noi. Alice non deve vedersela solo con un hacker che le ha rubato le password dei suoi social, ma con una sua identica copia digitalizzata che vive in una camera identica alla sua, che ha i suoi stessi vestiti e la sua stessa voce. Oltre all’identità, è proprio la sua esistenza ad essere clonata in una sorta di mondo parallelo simile al nostro ma che esiste solo nell’etere di Internet.
Il pregio del film è che sostanzialmente non fa paura, o meglio vi è una continua situazione di disagio che perdura per tutti i 90 minuti di durata, ma non è un horror in senso lato. E da una produzione Blumhouse non ci si aspettava questa ricercatezza tematica, ma piuttosto un qualcosa di simile ad un Unfriended (che come ghost story web 2.0 ha il suo perché). Si vanno a toccare quasi dei lidi lynchani, con un’estetica pop che deve molto al demone del neon di Refn, non c’è nessuna catarsi o risoluzione finale (libera a molte interpretazioni) che lo rende un prodotto di genere non proprio adatto a chi è abituato all’horror commerciale da multisala che ultimamente sbanca il botteghino (James Wan ed affini).
Una piacevole sorpresa che ancora una volta sottolinea, qualora ce ne fosse stato bisogno, che si può tranquillamente usare un genere popolare come l’horror per specchiarci in uno specchio scuro che ci sta lentamente divorando e sostituendo.
Disponibile su Netflix dal 16 Novembre
Stefano Tibaldi
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