Captive State, la recensione

Nove anni fa gli Stati Uniti sono stati teatro di un’invasione aliena che in breve tempo ha interessato ogni posto del globo terrestre. Gli alieni hanno messo la Terra sotto uno stato d’assedio militarizzato tramite accordi ferrei che implicano gli stessi governi come collaboratori e controllori dell’ordine, fornendo agli invasori libero accesso alle risorse naturali terrestri. Ma a Chicago si è sviluppata un’agguerrita resistenza, capitanata da Rafe, che sta progettato attentati terroristici ai danni dell’élite aliena e su cui sta indagando il detective Mulligan

Raccontare al cinema un’invasione aliena nel 2019 non è proprio così semplice, innanzitutto perché il filone è stato esplorato in lungo e in largo, spesso con esiti sorprendenti, il più delle volte con budget imponenti che non lasciano praticamente nulla alla fantasia. Quindi, considerando tutto ciò, è arduo soprattutto trovare vie originali che esulino dal solito racconto di sopravvivenza su scala globale inquadrato da un gruppo ristretto di personaggi. A memoria, negli ultimi dieci anni circa, quelli che sono riusciti a fare quel passetto in avanti donandoci un “alien invasion movie” degno di sedimentarsi nell’immaginario sono pochissimi e, guarda caso, tutti legati alle dinamiche del cinema indipendente: intendo Cloverfield di Matt Reeves, Monsters di Gareth Edwards e District 9 di Neil Blomkamp. Tre esempi di cinema di invasione aliena intelligenti, piuttosto minimali e pregni di riflessione sociale ascrivibile al periodo storico nel quale sono nati.

Dalle premesse, Captive State di Rupert Wyatt richiama abbastanza alla mente proprio questi esempi di cinema di fantascienza, visto il budget esiguo (25 milioni di dollari), la forte componente politico/sociale e l’ambiente di relativa indipendenza produttiva nel quale si muoveva. Dalle premesse però, solamente dalle premesse. Perché, a conti fatti, Captive State non solo viaggia anni luce da un Cloverfield o da un District 9, ma si inserisce sulla buona via di guadagnare un ipotetico premio come film fantascientifico più sòla degli ultimi anni.

Innanzitutto, a trascinare nel baratro una storia per nulla originale (la serie tv Colony è molto simile) ma con sufficienti spunti per creare un universo affascinante è la disastrosa sceneggiatura scritta dallo stesso Wyatt con Erica Beeney, uno script farraginoso, confuso, con troppi personaggi nessuno dei quali ha il dovuto sviluppo, una narrazione che appare continuamente affastellata con taglia e cuci da un progetto più ampio. E infatti la sensazione primaria è che Captive State fosse materiale utile per una serie televisiva, vista la mole di informazioni e personaggi, la dilatazione narrativa e ritmica, il finale che sembra davvero tanto un preludio a un seguito che probabilmente mai vedremo.

Oltre a una scrittura poco convincente che denota una nebulosità d’intenti, il film pecca in quello che dovrebbe essere il fattore primario del cinema di genere: il coinvolgimento spettatoriale.

In Captive State non c’è un protagonista, ma un mucchio di personaggi poco strutturati di cui sappiamo a malapena il nome. Viene a mancare un punto di vista che possa coincidere con quello spettatore e c’è una totale dispersione della partecipazione emotiva al punto tale che se vincessero gli alieni o gli umani terroristi non cambierebbe molto nella percezione di chi sta assistendo allo spettacolo. Così facendo si contravviene a una delle leggi primarie dell’entertainment e si rischia – come effettivamente qui accade, visto l’esito disastroso al botteghino internazionale – di perdere lo spettatore e la sua attenzione.

È un peccato che tutto sia andato a ramengo, anche perché alcune buone frecce nel suo arco Captive State ce le ha pure. Innanzitutto, l’atmosfera funerea e disperata costruita da Wyatt ha il suo fascino e, a tratti, nella costruzione della “rivoluzione” richiama alla mente anche l’atto finale del suo bellissimo L’alba del pianeta delle scimmie… peccato che quasi 120 minuti di piattezza narrativa possono anche caricare negativamente quell’atmosfera suggestiva nella percezione di pesantezza che lo spettatore può avere. Poi c’è una colonna sonora incalzante a cura di Rob Simonsen che è proprio quella giusta per raccontare una storia di rivoluzione sotterranea crescente; anche il look degli alieni (per quel poco che si vedono) è sufficientemente originale da rimanere impresso.

Il cast è per lo più costruito da volti poco o nulla noti, ad eccezione di John Goodman, nei panni del detective, che forse dà vita anche al personaggio più interessante e sfaccettato con i suoi scheletri nell’armadio e conflitti interni, e Vera Farmiga in un ruolo chiave ma alla stregua di un cammeo.

Probabilmente pensato per essere sviluppato con un budget più importante e con una struttura da saga (o serie tv), Captive State fallisce un po’ su tutta la linea lasciando nello spettatore un senso di insoddisfazione generale anche abbastanza fastidioso perché palese delle potenzialità inespresse.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Atmosfera opprimente.
  • Colonna sonora.
  • Scrittura confusa e poco appassionate.
  • Completa mancanza di un punto di vista sulla vicenda.
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Valutazione: 4.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Valutazione: +2 (da 2 voti)
Captive State, la recensione, 4.0 out of 10 based on 1 rating

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