FEFF22. Soul – Roh, la recensione
In un tempo imprecisato nella campagna malese vive una famiglia: madre e due figli, di cui lei pre-adolescente e lui bambino. Un giorno, mentre sono a controllare le trappole per la selvaggina, i ragazzi trovano un cervo appeso per una zampa a un albero e lì vicino una bambina sporca e in evidente stato di shock, che li segue fino a casa. La mamma dei ragazzi è decisa a prendersene cura, la pulisce e la nutre ma come risposta la bambina scaglia su di loro una maledizione e si taglia la gola. Da questo momento, per la famigliola è un’escalation di eventi nefasti che coinvolgono anche un misterioso cacciatore e un’anziana viandante.
Incredibilmente lanciata nella produzione di cinema horror, la Malesia si sta rivelando un piccolo concentrato di brividi a buon mercato che solitamente non si contraddistinguono per la qualità quanto per la quantità (pensiamo alla saga Munafik e al successo del thriller Dukun e Pusaka). Ma deve esserci un’oscura fascinazione per il mistero e per l’orrore in questa nazione del Sudest asiatico che, tra gli altri, ha dato i natali a James Wan, regista di Insidious e The Conjuring nonché uno dei massimi esponenti del cinema horror internazionale. Soul (in originale Roh, che significa appunto anima) è un film molto diverso da quello a cui ci sta abituando in questi anni il cinema horror malaysiano anche se pone come fermo perno narrativo la tradizione folkloristica locale. Se da una parte è apprezzabilissima la presa di distanze da quel filone commerciale che prevede la fusione tra spiriti tormentati, demoni e storie romantiche, che è il vero nocciolo duro del genere, dall’altra abbiamo un film difficilmente fruibile dal grande pubblico e, soprattutto, al di fuori dei confini malaysiani.
La prima cosa che salta all’occhio guardando Soul è l’assoluta povertà del tutto: una capanna in mezzo al bosco, 6 attori in totale e un minimalismo estremo che, nonostante la breve durata del tutto, non riesce a coinvolgere più di tanto. L’espediente di svincolare la narrazione da un luogo e un tempo precisi, che senz’altro aiuta lo sceneggiatore e regista esordiente Emir Ezwan a far fronte al budget limitatissimo, non risulta così efficace come sembrerebbe e crea distacco invece che empatia. Non avere coordinate spazio-temporali, così come una vera costruzione di nessun personaggio pone un muro tra lo spettatore e quello che si guarda, una barriera confermata anche dall’assoluto ermetismo dell’epilogo, troppo frettoloso e con troppi spiegoni che, di fatto, non portano a nulla.
Dunque, in Soul è la sceneggiatura a latitare, un concept sicuramente affascinante nella sua semplicità che non è supportato da un soddisfacente sviluppo e da personaggi evanescenti. In particolare, il cacciatore e la viandante, a cui sono affidati twist narrativi prevedibili fin dai primi minuti del film, non convincono per l’esigua ed infantile scrittura a cui sono affidati e per la discutibile interpretazione degli attori (lui è Namron, regista di Crossroads: One Two Jaga). Invece colpiscono per bravura e naturalità gli altri interpreti, soprattutto la bambina-demone (Putri Qaseh) e la figlia adolescente (Mhia Farhana).
Molto acerbo per scrittura e regia, Soul si lascia ricordare giusto per un paio di momenti molto crudi che arrivano improvvisi e mettono a disagio. Ecco, se Emir Ezwan avesse puntato più sull’aspetto shockante a cui la vicenda ben si prestava probabilmente avrebbe confezionato un’opera prima notevole. Così com’è, Soul è solo un discreto biglietto da visita utile a farsi produrre un secondo, vero, film.
Soul è in attesa di una distribuzione capillare in Malesia, visto che l’emergenza sanitaria da covid-19 ne ha fatto slittare l’uscita ed è stato presentato in anteprima europea alla 22^ edizione del Far East Film Festival.
Roberto Giacomelli
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