Flee, la recensione
Amin ha trent’anni, è un accademico affermato e sembra vivere una vita agiata e appagante. Ma l’uomo porta con sé una cicatrice che non ha mai mostrato a nessuno. Una storia personale incredibile, tragica e piena di sofferenza, una storia che ha dovuto nascondere a tutti per il suo bene e per il bene della sua famiglia. Ma adesso ha capito che può finalmente gettare giù la maschera e aprirsi al mondo, può raccontare la vera storia della sua vita, taciuta per tutti questi anni. Amin ha deciso di raccontarsi all’amico Rassmussen, giovane documentarista, che vuole ripercorrere con lui tutta la sua odissea: dall’infanzia felice tra le strade di Kabul fino all’improvviso arresto del padre come diretta conseguenza di quella guerra civile che portò alla vittoria dei mujaheddin; dalla fuga con la madre, fratello e sorelle a Mosca, in una pericolosa Russia post-comunista, alla tragica avventura con i trafficanti di umani in Europa; dalla speranza di raggiungere la Svezia fino all’arrivo indesiderato in Danimarca, dove Amin sarà costretto a mentire sulla sua storia per non essere riportato in Afghanistan. Un’avventura lunga trent’anni, carica di paura e dolore, che per la prima volta viene raccontata al mondo, davanti il registratore del suo miglior amico Rassmussen.
Non è semplice parlare di Flee.
È difficile, infatti, parlarne in piena oggettività cercando di rimanere impermeabili all’enorme scarica emozionale che il film riesce a trasmettere minuto dopo minuto, a mano a mano che la narrazione avanza e l’odissea di Amin diventa sempre più sofferta. Ma al tempo stesso è difficile anche parlarne a causa, anzi per merito, della squisita natura artistica dell’opera che colloca il prodotto nel bel mezzo di una perfetta via di fuga tra film d’animazione, documentario e film di fiction.
Flee ha una personalità strabordante che, per certi versi, ridefinisce i confini del cinema d’animazione un po’ come nel 2008 fece Ari Folman nel bellissimo Valzer con Bashir (a cui Flee indubbiamente guarda). Ma il regista/documentarista danese Jonas Poher Rassmussen riesce ad andare persino oltre rispetto a quanto fatto da Folman, restituendo al pubblico un carattere che il cinema d’animazione riesce a perseguire sempre più difficilmente, quello impegnato e rivolto dichiaratamente ad una platea adulta, un carattere che rammenta al cinema occidentale che l’animazione è una forma espressiva e non un genere ad appannaggio dei prodotti da destinare ai più piccoli. Rassmussen riesce così a cogliere tutte le potenzialità dello stile animato e a coniugarle in modo sublime al prodotto documentaristico senza però rinunciare mai ad un’estetica ed una narrazione che guardano prepotentemente al cinema d’intrattenimento.
Il risultato raggiunto da Flee è eccezionale, quasi un unicum nel suo genere, tanto che l’operazione ha avuto la possibilità di godere della prestigiosa vetrina del Sundance Film Festival, poi del Festival di Cannes, fino ad ottenere ben tre candidature agli oscar che per la prima volta nella Storia portano un film a gareggiare nelle seguenti categorie: miglior documentario, miglior film d’animazione e miglior film straniero.
Ma in che modo il film di Rassmussen si giostra all’interno di queste tre categorie?
Flee ha la logica del cinema documentario a tutti gli effetti, tanto che il film si apre con il regista (anche attore, nel suo avatar animato) che compone la prima inquadratura del film, offre indicazioni al suo attore (Amin) e batte persino il primo ciak. Tutto ciò, ovviamente, in una ricostruzione squisitamente animata. Un’animazione che prende vita dalla reale testimonianza orale di Amin che ci accompagna per tutto il film, un’animazione che dunque serve a tradurre in immagini la tragica odissea raccontata dal suo protagonista.
Ma Rassmussen non si accontenta di questo e si spinge ancora oltre, non limitandosi a dare un corpo animato al racconto di Amin ma andando a creare anche una linea narrativa (sempre animata!) al di fuori dell’intervista di Amin. In altre parole, tutto ciò che il regista ha vissuto in prima persona nella fase di lavorazione al film (dunque intervistare l’amico ma anche accompagnarlo nelle sue attività quotidiane) lo ha trasposto – in chiave animata – nella sua opera cinematografica, dando così vita ad un film che è davvero difficile da collocare in un settore ben preciso.
Ma al di là dei suoi vezzi artistici, Flee si porta dietro anche un enorme valore umano che raramente il cinema ha saputo restituire in questa maniera. Perché Flee è il racconto reale di un uomo, assolutamente vero, ma al tempo stesso è anche il racconto di tanti uomini (misti per genere ed età) che negli anni Novanta – ma anche oggi – si sono visti costretti ad entrare nei loschi meccanismi dei trafficanti d’umani nella speranza di lasciare contesti sociali difficili per trovarne di più ospitali. Fuori da ogni retorica possibile o cliché, Rassmussen – grazie alle parole di Amin – ci mostra come avvenivano questi traffici d’esseri umani, ci mostra le condizioni disumane che queste persone erano costrette a subire e il pericolo costantemente dietro l’angolo. Ma soprattutto, a far male nel racconto di Amin, è vedere cosa era costretta a subire e a quali compromessi doveva scendere una famiglia che voleva emigrare con la speranza di poter ricominciare altrove…e tutti insieme.
Servendosi di un’arma espressiva così importante come quella dell’animazione in 2D, il regista riesce a conferire alla sua opera una drammaticità molto particolare, quasi unica. L’animazione di Flee non è mai uguale a sé stessa durante i novanta minuti di durata: cambia spesso stile, il tratto è talvolta morbido e talvolta agitato, spesso concreto e altre volte più astratto. Rassmussen ricorre ad un’animazione che muta assieme all’umore del suo protagonista e lì dove il racconto di Amin si fa più agitato e spaventato anche l’animazione diventa più nervosa, astratta e priva di fronzoli estetici come il colore.
Aggiungono indubbiamente valore anche i piccoli inserti di repertorio, inseriti di volta in volta al solo scopo di scandire lo scorrere del tempo e contestualizzare l’anno in cui sta prendendo corpo il ricordo di Amin, così come la bella colonna sonora di carattere pop utile a fare da contrappunto ad un racconto dai toni per lo più drammatici (a tal proposito, bellissima la sequenza in cui un Amin bambino corre tra le strade di Kabul mentre ascolta Take on Me degli a-Ah al suo walkman).
Insomma, Flee è un piccolo gioiello che apporta un contributo importante al cinema d’animazione e che per tanto è destinato a sopravvivere nel tempo.
L’esperimento di Rassmussen di ibridare animazione-documentario-fiction è senz’altro riuscito ma l’operazione ha saputo andare ben oltre regalando un’opera d’arte che sa riflettere i sentimenti di tutti quegli esseri umani che nella vita hanno davvero sofferto in silenzio. Per il loro bene e per quello dei loro cari.
Quello di Rassmussen è davvero Cinema che fa bene al cinema.
Giuliano Giacomelli
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