Fuocoammare, la recensione

Al principio di Settembre del 2013, una piccola grande rivoluzione si consuma nella cornice della settantesima Mostra del Cinema di Venezia: per la prima volta nel corso della storia della rassegna, la giuria della sezione ufficiale in quei giorni presieduta da Bernardo Bertolucci, spiazza i pronostici della vigilia e sceglie di assegnare il riconoscimento più alto ad un’opera complessa e potente che, qui sta la sorpresa, esula dai canoni del cinema di finzione propriamente detto: Sacro Gra , regia di Gianfranco Rosi, affresco filmato sulla periferia della grande metropoli organizzato attorno ad un’esplorazione documentaria di quell’umanità che gravita, più o meno dimenticata (e non soltanto dal cinema), nei paraggi dell’ anello stradale che con il suo abbraccio d’asfalto cinge la città di Roma in maniera davvero poco amichevole.

Il prestigioso Leone d’Oro non intorpidisce la vitalità del cineasta, anzi: trascorre poco più di un anno dai giorni veneziani ed ecco che, autunno 2014, Gianfranco Rosi si sposta a Lampedusa per verificare la possibilità di realizzare un corto su commissione di circa 10 minuti da presentare a un festival internazionale, con l’idea in mente di ripulire l’immagine dell’isola da certe distorsioni operate tanto a livello mediatico, quanto sul piano del più comune dibattito politico.

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Banalizzata, spettacolarizzata, confusa quanto si vuole da afflati populisti e dall’abuso del lessico umanitario, la realtà di Lampedusa si presenta agli occhi del regista con la forza spiazzante della sua articolata complessità; ed ecco che, sorretta dalle manovre del caso, si impone un’irrevocabile scelta di campo: ciò che nasce in prima battuta come cortometraggio si dilata ed acquisisce una profondità ed un’autonomia di discorso inedita, che per essere valorizzata dignitosamente necessita di una dimensione più consona: non potrà essere che un lungometraggio.

Questa, in soldoni, la genesi di Fuocoammare.

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Al momento in cui viene completata questa recensione, sono passati pochi giorni dal passaggio del film in concorso al Festival di Berlino. La kermesse non si è ancora conclusa, così come non si è sopita l’eco degli applausi e dei consensi raccolti dal film in occasione delle prime proiezioni, il che autorizza a guardare con ragionevolezza alla possibilità di andare a premio anche in quest’occasione. Tanti auguri.

Il cinema di Gianfranco Rosi si direbbe fatto su misura per scoraggiare una certa pigrizia del cuore e della mente; la narrazione documentaria di questo, così come dei suoi lavori precedenti, non impone allo spettatore l’arroganza di un percorso ideologico chiuso in partenza, non si propone di dimostrare tesi di alcun genere, non offre l’illusorio palliativo di una comoda soluzione. Non c’è voce fuori campo, niente prima persona, soltanto immagini, parole, volti, mani, suoni, colori. La forza di una realtà che si impone con la sua verità asciutta e implacabile, e proprio in virtù del rigore con cui viene esposta, acquisisce un pathos ed una forza drammatica notevole.

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Lampedusa è ormai uno dei tanti crocevia attraverso i quali si materializza l’emergenza sociale, politica, demografica e, perdonate la brutta parola, morale più rilevante dei nostri giorni. Ciò che il film di Rosi rende, con chiarezza inequivocabile, è l’ambiguità di questo discorso: Lampedusa diventa un microcosmo di un’Europa confusa e stordita alle prese con un’emergenza migratoria che fatica a razionalizzare e definire nei suoi contorni sfuggenti, e nella sua urgenza costante. La realtà dell’isola è sistematicamente frammentata e riflessa nei volti dei personaggi che popolano il film e ne delineano l’ossatura; personaggi come il piccolo Samuele, 12 anni, ipocondriaco, che ama la terra e soffre il mare, cerca di farsi lo stomaco in piedi su una barca, fabbrica fionde, ha l’occhio pigro e lancia nel vuoto i suoi proiettili di fantasia; come il dottor Pietro Bartolo, responsabile dell’ASL locale, responsabile della gestione medica dell’emergenza; o come Giuseppe, dj di Radio Delta, che raccoglie nella sua trasmissione richieste musicali con annesse dediche. E poi i funzionari in mare e sulla terraferma, ed ovviamente i migranti: nei Centri d’Accoglienza, dal ginecologo, sotto il sole cocente in un barcone alla deriva, vivi, morti, muti, in lacrime, disidratati e affamati fino alla consunzione.

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Fuocoammare restituisce la tensione ininterrotta di un esodo senza precedenti, che si intromette, talvolta in maniera esplicita, talvolta con la forza strisciante di una corrente sotterranea, nei ritmi peculiari di una comunità isolana che viaggia su frequenze che eludono certe frenesie del mondo moderno. Non offre opinioni autorevoli, né maestose visioni d’insieme; scompone il quadro in una molteplicità di elementi/ esperienze/ emozioni e, incoraggiando lo spettatore a non distogliere lo sguardo, lo invita a sviluppare un pensiero autonomo e a ricondurre ad’unità le molte realtà che si propongono ai suoi occhi.

Francesco Costantini

PRO CONTRO
  • La testimonianza del dottor Pietro Bartolo mescola rigore professionale ed autentica empatia. Basta da sola a giustificare l’esistenza stessa del film.

 

  • Il piccolo Samuele, una vera forza della natura, vive esperienze che, nell’ottica del film, acquistano una forza simbolica talmente esplicita da indebolirne la verità.
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