Il Regno d’Inverno, la recensione

Il 9 ottobre esce nelle nostre sale Il Regno d’Inverno, film vincitore della scorsa edizione del Festival di Cannes. Nuri Bilge Ceylan, il regista, non è nuovo alla Croisette, avendo già vinto numerosi premi, tra cui il Grand Prix Speciale della Giuria per Uzak e C’era una volta in Anatolia.
In un albergo sperduto nella suggestiva Anatolia si intrecciano le vicende di Aydin (Haluk Bilginer) e della moglie Nihal (Melisa Sözen), con la quale è in crisi. Oltre ai loro contrasti, la coppia deve gestire anche la sorella di Aydin, Necla (Demet Akbag), neo-divorziata intrisa di pessimismo, e i difficili rapporti con una famiglia del luogo.

Sebbene, per alcuni elementi, Il Regno d’Inverno possa ricordare lo stile ormai riconoscibile e i precedenti lavori di Ceylan, ci troviamo di fronte ad una pellicola unica nel suo genere. La neve che avvolge l’albergo, e i rapporti umani, richiama alla mente l’Istanbul di Uzak, ma qui abbiamo un’interazione molto diversa tra i personaggi. Il regista turco, infatti, ci aveva abituati a lunghi silenzi e ad un ritmo lento, mentre in quest’ultimo film lo spettatore è catturato dai numerosi dialoghi che creano un’atmosfera letteraria e decisamente teatrale. Quest’ultimo elemento si ripresenta spesso: Aydin, infatti, è un ex-attore di teatro (nel suo studio ritroviamo locandine di spettacoli teatrali e maschere). Inoltre, le scene chiave sono ambientate in interni che diventano quasi claustrofobici.

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Il teatro ritorna anche nei riferimenti a Cechov: Ceylan stesso dichiara di essersi ispirato a tre novelle dello scrittore russo per scrivere la sceneggiatura (si veda anche C’era una volta in Anatolia, dove Cechov viene citato nei titoli). Nel film e nel teatro di Cechov ritroviamo, infatti, monologhi travestiti da dialoghi e personaggi che non parlano veramente agli altri, bensì solo a se stessi. E, mentre parlano del loro desiderio di felicità, lo riconoscono, allo stesso tempo, come irrealizzabile, come succede nel film in questione. E’ interessante citare anche Il Gabbiano di Cechov, dove un animale diventa simbolo della morte del protagonista; nel film turco, invece, un cavallo selvaggio viene comprato e poi lasciato andare via da Aydin, dopo una lite con la moglie che gli rivela il suo desiderio di essere libera.

Nell’albergo di Aydin ritroviamo le patologie di una società borghese che si annoia ed è infelice, ma non sa come comunicarlo. E’ un tema che ricorda quello di Passione e Amore, uno dei primi lavori di Ceylan. I due protagonisti sono inseriti bene nella società: lui è un professore, lei lavora nella televisione, ma non sanno come esprimere il proprio disagio interiore. Eppure, con la loro cultura e visione del mondo, non dovrebbero farlo meglio di altri? Stessa cosa avviene ad Aydin e a sua moglie Nihal. Lui, che ha espresso tante volte i tormenti dei personaggi che interpretava a teatro, non sa più togliersi una maschera scomoda, e lei trova un apparente rifugio nella beneficenza, da brava signora borghese. L’originalità di Ceylan sta nel trasferire angosce tipiche di un salotto borghese in un luogo sperduto e suggestivo come l’Anatolia, che, coi suoi spazi desolati e le case scavate nella roccia, diventa lo specchio dell’amarezza dei protagonisti.

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Nel film, l’incomunicabilità è resa anche dal contrasto con la famiglia dell’imam Hamdi: la miseria in cui vivono non permette loro di pagare l’affitto della propria casa, la quale è di Aydin. Quest’ultimo non ha voglia di aiutarli. La moglie, invece, ci prova, ma con un risultato mortificante. Dal particolare al generale, dunque; la grande storia della lotta fra classi, dell’utopia che cozza contro il realismo, si ritrova in un villaggio di poche anime in Turchia. Il talento di Ceylan risiede anche in questo: raccontare grandi temi grazie ad un pretesto semplice (in questo caso, la crisi di un matrimonio). La vita diventa teatro e il teatro diventa vita. Il problema che si riscontra ne Il Regno d’Inverno è proprio questo: è giusto rendere un film come un’opera teatrale o come un romanzo? E’ naturalmente un esperimento affascinante, ma accessibile a pochi spettatori. Il tutto è reso ancora più arduo dalla durata di 196 minuti del film.

I dialoghi, come l’amo buttato da un pescatore in un lago calmo, turbano in superficie il pubblico, perché pongono domande mai scontate, ma, alla lunga, risultano sterili e faticosi. Si coglie davvero il senso solo nelle parole finali di Aydin, in cui egli sembra gettare la maschera ed aprire il cuore alla moglie Nihal. Ceylan, però, lascia volutamente questo discorso sospeso nell’ambiguità, poichè non è chiaro se il protagonista lo pronunci davvero. Le pellicole del regista turco si configurano sempre come un indagine dell’animo ma, proprio perché esso non si può comprendere a fondo, i finali rimangono sempre incerti ed interrotti. E’ senza dubbio un film necessario, ma difficile, che ha bisogno di più di una visione per esser colto in tutti i suoi risvolti. Un’ulteriore nota di merito va agli attori, intensi e profondi, a cui Ceylan dedica molti primi piani, come ad indagare i cambiamenti dei loro volti con la macchina da presa.

Giulia Sinceri

PRO CONTRO
  • E’ una pellicola che offre molti spunti di riflessione.
  • Attori intensi e profondi.
  • Vi sono molti riferimenti letterali e teatrali.
  • Narrazione contornata da un paesaggio suggestivo ed affascinante.
  • Eccessiva teatralità della pellicola.
  • Dialoghi complessi e faticosi.
  • Durata smisurata. Si consiglia di affrontare la visione con una certa preparazione.
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Valutazione: 8.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Il Regno d'Inverno, la recensione, 8.0 out of 10 based on 1 rating

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