Incantation, la recensione

Quella degli appassionati del genere horror è forse la categoria di cinefili che più di tutte ama dividersi in fazioni e generare dualismi su ogni componente del cinema del terrore. Vi sono, infatti, aspre divisioni tra i fan degli svariati boogeymen, tra chi definisce genio un determinato regista e chi, al contrario lo reputa sopravvalutato… e l’elenco degli esempi sarebbe interminabile. Una delle dispute più dure e più recenti, tuttavia, ruota intorno al filone del mockumentary, quello stile narrativo i cui film utilizzano immagini vere, o verosimili, al fine di avvolgere lo spettatore in un clima di puro terrore e renderlo partecipe di storie di paura maledettamente concrete e vicine alla realtà circostante.

Fin dall’uscita del primo capitolo della saga di Paranormal Activity – film che ha fatto conoscere al grande pubblico la pratica del mockumentary reinventando lo stile lanciato quasi un decennio prima da The Blair Witch Project -, infatti, la discussione si è scatenata tra chi ritiene tale filone un’occasione per dare nuova linfa ad un’appiattita scena horror e chi, al contrario, lo dipinge come una furbata per accaparrarsi i consensi del pubblico medio, ignorando così i gusti della nicchia degli appassionati più esperti.

Nel bel mezzo di questo autentico campo di battaglia cinefilo va ad inserirsi Incantation, nuovo film del taiwanese Kevin Ko il quale, dopo una serie di lavori non molto famosi in Occidente, cerca di dare slancio alla sua carriera attraverso un film che mescola lo stile prettamente occidentale del found footage con suggestioni provenienti dall’Estremo Oriente. Il suo horror, distribuito dalla piattaforma Netflix, si rivela un buon racconto di paura, capace di far saltare dalla sedia in alcuni momenti e spaventare a dovere per merito di una notevole maestria nel mettere su atmosfere inquietanti, tetre e misteriose.

Qualità, tuttavia, non bilanciate da una sceneggiatura a dir poco confusionaria e dalla struttura fin troppo ambiziosa e complessa.

Li Ronan è una giovane giornalista che, insieme a due suoi colleghi, si reca in un isolato villaggio per realizzare un reportage sulle superstizioni e le credenze popolari del posto. Il gruppo, però, si spinge troppo oltre e finisce con lo scoperchiare segreti che mai avrebbero dovuto far riemergere, andando incontro così a conseguenze terribili. La donna, infatti, qualche anno dopo, è costretta a difendere sua figlia da una maledizione implacabile che coinvolge lei e, appunto, tutte le persone a lei care e vicine.

Il regista di Taiwan mette in chiaro fin da subito le sue reali intenzioni, ovvero quelle di creare un prodotto commerciale che abbia un impatto immediato sul pubblico e che sia fruibile anche da chi è poco alfabetizzato con il genere horror. Incantation, infatti, evidenzia uno stile di regia adeguato a tale scopo e dunque essenziale e volto a creare continue sequenze lunghe e ricche di suspense, rese ancora più terrorizzanti dall’utilizzo della tecnica del found footage. Una scelta questa che si rivela vincente, unitamente ai riferimenti alle credenze religiose orientali che rendono la vicenda ancora più misteriosa e lastricata di pericoli imprevedibili, presentati sulla scena in qualsiasi forma e modalità.

Kevin Ko, dunque, si rivela anche molto bravo nell’eludere la grande trappola della vecchiaia del filone mockumentary in quanto Incantation non sembra un film fuori dal tempo, ma al contrario risulta sempre molto vivace, nonostante la durata non proprio esigua per il genere, nonché con una propria personalità, almeno dal punto vista visivo.

Precisazione, quest’ultima, quanto mai necessaria poiché più di qualche scricchiolio proviene da una sceneggiatura, scritta dallo stesso regista insieme a Che-Wei Chang, che alla lunga resta vittima dell’ambizione del regista e della sua struttura diluita su due livelli temporali diversi che finisce per confondere lo spettatore e rendere la narrazione confusionaria e pasticciata. Criticità che contribuiscono a rendere anche meno empatico il legame affettivo tra la bambina e la protagonista il cui istinto materno la spinge a sfidare il male assoluto pur di difendere la sua piccola. Il tutto, però, arriva a chi guarda in modo freddo e distaccato.

Incantation, in conclusione, è comunque un film godibile, ben girato e consigliato per chi vuole passare due ore di puro terrore e vivere con l’ansia di sobbalzare dalla poltrona da un momento all’altro.

Vincenzo de Divitiis

PRO CONTRO
  • Le scene di paura sono davvero efficaci e ben riuscite.
  • La scelta di utilizzare il found footage e le suggestioni della religione orientale è davvero indovinata.
  • La sceneggiatura confusionaria rende la storia a tratti difficile da seguire.
  • La trama del legame affettivo madre – figlia arriva al pubblico con freddezza e distacco.
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Valutazione: 6.5/10 (su un totale di 2 voti)
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Incantation, la recensione, 6.5 out of 10 based on 2 ratings

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