Ippocrate, la recensione

Ippocrate, antico medico greco, famoso per aver messo sullo stesso piano professionalità e morale.

Ippocrate, film prodotto nel 2014 e uscito in Italia nel 2018, cerca una morale nella professionalità di medici parigini, il cui lavoro spesso impone di ignorare i principi del medico greco.

Una breve sinossi: il giovane medico Benjamin (Vincent Lacoste), figlio del capo reparto di medicina interna – branca ospedaliera ben delineata nel telefilm Doctor House (spesso citato in maniera ironica in questo lungometraggio) – inizia a lavorare a Parigi nello stesso reparto del padre; con lui è arrivato a esercitare la professione anche un altro medico abbastanza giovane, Abdel (Reda Kateb), algerino, che ha già avuto modo di fare esperienza nel suo Paese, ma che adesso vuole trasferire la sua famiglia in Francia. Attraverso le esperienze di questi due dottori, il regista punta a screditare parte del sistema sanitario francese.

Non è un caso che la prima immagine del film riprenda il più giovane dei due di spalle, il suo primo giorno di lavoro, intento a camminare per i sotterranei dell’ospedale. Le spalle a tratti vengono illuminate dalla luce di un percorso tra pareti che perdono lo stucco, l’assenza di corsie di emergenza, e addetti ai lavori che indossano camice e scarpe, di cui la legge prevede l’uso solo all’interno dell’ospedale. Questi aspetti vanno poi di pari passo con l’ironia – peraltro forte citazione da Arancia Meccanica – che esprimono le pareti del refettorio e di altri interni, su cui sono state dipinte frasi goliardiche e organi riproduttivi dalle enormi dimensioni; il tutto accompagnato da omini stilizzati ritratti in atti sessuali o di caccia. Le figure sono state tracciate con pastelli, ma è con l’olio della macchina da presa che vengono caratterizzati gli aspetti tematici.

In primis lo scarso uso delle musiche, perlopiù canzoni pop francesi che danno un senso di tristezza. Gli altri suoni vengono dai macchinari o dai pazienti doloranti, che stipati attendono in un qualche angolo il miglioramento delle condizioni. Ma è difficile preservare la vita di chi sta male, se come primo obiettivo scegliamo parametri di redditività, invece che di salute. Ed è qui il cuore del lungometraggio! Litli riesce a rendere bene il messaggio “negli ospedali francesi è ancora il budget che decide per la vita di chi non sta bene”, perché durante l’arco della narrazione mette in fila una dietro l’altra scene che lasciano il non detto a comunicare, per poi usare uno sciopero come pretesto a sfogare le frustrazioni di infermieri e ogni tipo di medici. Fino ad arrivare al responsabile del reparto.

Visti anche i temi trattati e la schiettezza imposta da immagini di vita che i malati sperimentano quotidianamente,  è da apprezzare il lavoro di contenimento del dolore, scelto dal regista. Non sono pochi i casi (e qui l’esempio di Doctor House cade a pennello) di registi che hanno ripreso il dolore tra le corsie di un ospedale, addirittura ampliandolo.

In Ippocrate non c’è esagerazione, al contrario sono molte le scene in cui a dominare è l’ironia, valore aggiunto cui fa da contrappeso un altro aspetto, se vogliamo, complementare. È la ricerca psicologica in tutti i personaggi: dai famigliari dei pazienti, agli infermieri, ai dottori. La maniera di narrare questi dolori dell’anima, come li definivano i greci, sembra spesso fare esplicito riferimento a Gus Van Sant, da cui l’esplosione dei sentimenti, le luci opache quando la ragione può fare luce solo sul centro di un corridoio, il silenzio come spazio in cui proiettare lo spettatore.

Questo e tanti altri, i motivi per cui dovreste andare al cinema a vedere Ippocrate, distribuito da Movies Inspired dal 7 giugno.

Roberto Zagarese

PRO CONTRO
  • Recitazione.
  • Setting.
  • Tematiche trattate.
  • Leggermente ridondante.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Ippocrate, la recensione, 7.0 out of 10 based on 1 rating

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