La mia vita con John F. Donovan, la recensione
Rupert Turner è un bambino particolarmente maturo, sensibile e che sogna di fare l’attore. Vive da solo con sua madre Sam, che in un certo senso è anche la sua unica amica, e a scuola subisce spesso le angherie dei compagni che lo considerano “diverso” e lo deridono per le sue ambizioni. Rupert custodisce un segreto enorme di cui nessuno è al corrente, nemmeno sua madre. Da anni ormai, il bambino porta avanti uno scambio epistolare e di carattere squisitamente confidenziale con il divo americano del cinema e della tv John Donovan. Nelle lettere che John scrive a Rupert rivela quanto sia difficile vivere sotto i riflettori, essere un personaggio pubblico e dover nascondere il proprio “essere” per evitare il rischio di deludere ammiratori e fan. Una mattina come tante, in trepida attesa per l’arrivo di una nuova lettera di John, Rupert apprende dal notiziario che il suo amico di penna è stato ritrovato nel suo appartamento morto suicida. Sgomento, tristezza e solitudine attanagliano Rupert che si vede privato, improvvisamente, di quell’unica cosa che lo rendeva orgoglioso.
Anni dopo. Rupert è diventato un giovane attore e ha deciso di scrivere un libro in cui rivela a tutto il mondo il contenuto di quelle lettere scambiate da piccolo con John Donovan. La giornalista Audrey Newhouse viene incaricata di intervistare l’attore/scrittore che durante l’intervista ripercorre la vita e la carriera, l’ascesa e il declino, di un attore che è stato amato da tutto il mondo e su cui gravano ancora scandali che non sono mai stati dimostrati.
A tre anni di distanza dalla sua ultima opera, l’interessante È solo la fine del mondo, torniamo a parlare di Xavier Dolan, attore/sceneggiatore/regista canadese di indiscusso talento che negli ultimi dieci anni si è imposto sulla scena cinematografica lasciando un po’ tutti a bocca aperta, vuoi per la consapevolezza e la maturità dei temi trattati di volta in volta, vuoi per la sua giovanissima età (classe 1989).
A seguito di una serie di piccoli film, tutti di produzione franco-canadese e la cui punta di diamante resta il bellissimo Mommy, Dolan ha mosso i primi passi nella “grande produzione” con il su citato È solo la fine del mondo e adesso, proprio con La mia vita con John F. Donovan, è giunto il momento per il portento canadese di confrontarsi con una produzione di carattere più internazionale, il primo film scritto e realizzato in lingua inglese.
Un passo molto importante nella carriera di Dolan che, purtroppo, non ha restituito i risultati sperati andando incontro ad un’accoglienza generale molto negativa (tiepida nel più roseo dei casi) che ha individuato ne La mia vita con John F. Donovan il punto più basso raggiunto per ora nell’invidiabile filmografia di Xavier Dolan.
Il film in questione, in effetti, non può dirsi particolarmente riuscito a causa di alcuni problemi oggettivi di scrittura che riflettono la volontà di voler dire tanto, forse troppo, all’interno di un minutaggio piuttosto contenuto. Tuttavia, da qui a parlare di “disastro” sicuramente ce ne passa.
Xavier Dolan dimostra ancora una volta di essere un autore rispettabile, affezionato a determinate tematiche e capace di portare avanti un medesimo discorso film dopo film, senza mai ripetersi e riuscendo a scansare abilmente la retorica così come la banalità.
Liberamente ispirato al libro Letters to a Young Poet di Rainer Maria Rilke, focalizzando l’attenzione sullo scambio epistolare di due giovani attori appartenenti a generazioni differenti, Xavier Dolan coglie la palla al balzo per imbastire un dramma desideroso di far avanzare quel discorso molto personale legato sicuramente all’omosessualità (tematica fondante di tutta la filmografia del regista) ma anche al disagio interiore correlato al difficile/sbagliato rapporto con l’istituzione famigliare, in modo particolare con la figura materna.
Temi che in Dolan ricorrono di film in film, in modo più o meno marcato, e che in La mia vita con John F. Donovan diventano indubbiamente protagonisti poiché legati al malessere che affligge John Donovan, una sofferenza che il divo prova ad esorcizzare scrivendo appunto a Rupert, un bambino sconosciuto – che mai conoscerà – e che vive in un altro Paese e perciò interlocutore perfetto a cui rivelare senza filtri il bello e il brutto, la gioia e il dolore connessi allo star system.
Senza perdere di vista le tematiche a lui care, Dolan si avventura in una riflessione poco edificante – ma a tratti anche divertente – di quelle che sono le spietate regole dello show business e così elegge a protagonista del suo “epico” racconto un giovane attore al culmine della sua carriera, la cui bellezza supera la bravura e amato da giovani e meno giovani per essere la star di una serie televisiva di successo. John Donovan si trova in un punto di svolta per la sua carriera, sta per firmare un importante contratto per interpretare il protagonista in grosso cinecomic e quindi, ora più che mai, non può permettersi di fare passi falsi nei confronti dell’opinione pubblica. Ciò significa per lui dover continuare a fingere, nascondere il suo vero “io” per essere ciò che vuole il suo manager e ciò che si aspettano i fan. Per John, tutto questo significa dover affogare la sua vera identità sessuale per portare avanti un rapporto “da vetrina” che possa far star bene tutti, compresi i famigliari. Rupert Turner, a tal proposito, diviene il suo psicologo/confessore ma anche dietro queste innocue confidenze si nasconde la pericolosa insidia di in una Hollywood sempre più in cerca di scandali e star da “lapidare”.
Questo è lo scheletro base su cui Dolan costruisce un racconto assai più ampio che si sviluppa su due archi temporali differenti: il passato, con Rupert Turner bambino e John Donovan ancora in vita e il presente, in cui Rupert ha ormai intrapreso la carriera desiderata e ricorda con la giornalista il suo attore preferito nonché amico di penna ormai scomparso da circa dieci anni.
Una struttura narrativa complessa, forse non necessaria al corretto sviluppo del racconto, che purtroppo diventa per Xavier Dolan un’arma a doppio taglio dal momento che è proprio questa narrazione “spezzata” su due linee temporali differenti che lascia emergere le principali falle del racconto. Raccontare il film in questa maniera finisce per creare un fastidioso – e a tratti sgrammaticato – disorientamento dello spettatore nei confronti del punto di vista. Essendo l’intero film un racconto di Rupert Turner alla giornalista Audrey si presuppone che lo sguardo imperante sulla vicenda sia proprio quello di Rupert eppure è evidente, durante l’intero film, che Dolan fosse maggiormente interessato alla vita, pubblica e privata, di John Donovan. Tutto questo genera una spiacevole confusione identificativa, uno smarrimento del punto di vista che fa sì che ogni cosa venga percepita ed assimilata in modo non ben approfondito. Il rapporto eccessivamente protettivo del piccolo Rupert con sua madre, i dissidi sottaciuti di John Donovan con la sua famiglia, ma anche lo stesso rapporto epistolare tra i due protagonisti del racconto, ogni elemento sembra essere lì presente, avere la sua importanza per la storia e i personaggi ma senza ricevere il giusto spazio all’interno del racconto. Una storia eccessivamente frammentata, diretta conseguenza di un’esigenza a contenere i tempi narrativi, magari anche attraverso molteplici interventi di montaggio per asciugare tutto l’asciugabile. Forse con una narrazione corale e lineare molti di questi problemi potevano trovare soluzione. Forse.
Anche se la sceneggiatura, scritta a quattro mani da Xavier Dolan e Jacob Tierney, lascia trasparire un senso di incompiutezza generale, lo stile espressivo del regista emerge sempre in modo dominante facendo in modo che La mia vita con John F. Donovan possa essere un film “figlio” di Dolan non solo per i contenuti. In modo particolare a stupire è la capacità innegabile di Xavier Dolan di riuscire a mantenere una dignità autoriale elevatissima pur abbellendo i suoi racconti con elementi smaccatamente pop e a un passo dal kitsch. Ciò, come per altre sue opere, si evince soprattutto dal magistrale utilizzo delle musiche con il ricorso a brani “fastidiosamente” moderni e modaioli ma utilizzati in modo così sapiente da apparire, al contrario, evocativi e affascinanti. Così come è impossibile non ricordare l’uso magistrale di Dragostea Din Tei di Haiducii nel suo precedente lavoro, qui sorprende la carica emotiva che riesce a conferire Rolling in the Deep di Adele durante la bella sequenza d’apertura che accompagna i titoli di testa.
A dare una marcia in più al film, inoltre, ci pensa il grande cast di cui Xavier Dolan si circonda. Ad emergere su tutti, in modo incontrastato, è sicuramente Jacob Tremblay (Room, Wonder) nel ruolo del piccolo Rupert ma al tempo stesso – abbiamo dubitato fino all’ultimo – funziona bene anche la star de Il Trono di Spade Kit Harington che, chiamato ad interpretare proprio John Donovan, dà vita ad un personaggio che sembra costruito ad hoc su di lui e sulla sua carriera. Lodevole il cast di contorno che vede coinvolti nomi illustri come quello di Natalie Portman (la mamma di Rupert), la sempre meravigliosa Kathy Bates (il manager di Donovan), Susan Sarandon (la madre di Donovan) e Thandie Newton (la giornalista Audrey).
La mia vita con John F. Donovan non è certo quell’inciampo artistico che in molti vogliono farci credere ma, su questo siamo tutti d’accordo, non è nemmeno un film che sarà ricordato all’interno della filmografia del giovane autore. Un’incursione non del tutto riuscita in un cinema dal carattere più commerciale, un dramma autoriale a cui si può imputare l’unica colpa d’aver voluto abbracciare meccanismi narrativi dai tratti, a volte, troppo convenzionali.
Giuliano Giacomelli
PRO | CONTRO |
Xavier Dolan porta avanti un personalissimo discorso che si fa sempre più corposo film dopo film.
Lo stile espressivo di Dolan, sempre molto autoriale pur essendo squisitamente pop. Il cast, praticamente perfetto. |
La sceneggiatura soffre di diverse fragilità così che il racconto non riesce ad approfondire nel modo giusto le tante tematiche chiamate in causa. |
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