Love, la recensione
A sei anni di distanza dal controverso Enter the Void, Gaspar Noè torna a far parlare di sé con quello che era stato annunciato come il “film scandalo” dell’anno: Love, una storia di sesso e amore disperato. Molti di noi si sono approcciati a questa pellicola, tanto peculiare quanto ostica, con le aspettative alle stelle.
Presentato fuori concorso al Festival di Cannes, Love verte attorno ad una coppia di fidanzati, Murphy ed Electra, due giovani innamorati, trascinati da una passione travolgente. Per aggiungere un po’ di pepe al rapporto i due coinvolgono la loro vicina di casa in un menage a trois. Tutto bene fino a quando l’intrusa non rimane incinta di Murphy. L’idilliaca storia d’amore subisce così un brusco arresto che provocherà irreversibili turbamenti alla coppia di amanti.
L’intento del regista franco/argentino era probabilmente quello di realizzare un “porno d’autore”, mettendo in scena un sentimentalismo profondo e morboso: il risultato è invece un (banalissimo) intreccio amoroso, condito da (poco) scabrose scene di sesso. Noè finisce per cedere alle sue proverbiali manie di grandezza: Love non è nient’altro che uno sterile ed irritante esercizio di stile, una scatola che racchiude con eleganza solo superficiale la concezione cinematografica del regista e che non riesce in nessun modo a comunicare un messaggio.
Rimanendo fedele ad un registro stilistico già consolidato, Noè non mostra nulla che non abbia già sperimentato in passato (e che non è tutta farina del suo sacco): lunghissimi piano sequenza a sostegno di una staticità narrativa di fondo, che dovrebbe avere lo scopo di trasporre in immagini la tormentata emotività dei protagonisti. Senza il supporto di una solida sceneggiatura, tutto ciò si traduce in 135 minuti di tedio allo stato puro. La trama non segue una linea temporale convenzionale, bensì viaggia tra passato e presente attraverso una serie di flashback; un’opzione tutto sommato azzeccata e che desta di tanto in tanto l’attenzione dello spettatore. Peccato però che non assistiamo mai ad un reale sviluppo della vicenda, la quale, dopo aver esaurito un decorso molto minimale (innamoramento-tradimento-disperazione) si adagia su sé stessa trasformandosi in una minestra riscaldata all’infinito, un accumulo di situazioni in fondo sempre uguali. Tra piagnucolii, frasi melense ed amplessi ci ritroviamo sempre allo stesso punto: il nulla cosmico.
Un’opera pretenziosa e stucchevole, colma di accorgimenti stilistici che fanno molto chic e vorrebbero essere “artistici”, persi in una patina fintamente intellettuale priva di qualunque spessore psicologico.
La raffinatezza formale non basta per risollevare le sorti del film, presentato inutilmente in 3D. Purtroppo un’eiaculazione in faccia allo spettatore non giustifica la scelta di utilizzare tale tecnica, la quale ha il semplice scopo di fungere da specchietto per allodole. Non si capisce poi perché un autore di tale livello debba ricorrere a giochini meta-cinematografici (tanto in voga ultimamente) per comunicarci i suoi interessantissimi propositi. Murphy è infatti un aspirante film maker che parla così: “Voglio fare un film sull’amore in cui ci sia anche il sesso, cosa che il cinema non ha mai fatto. Il cinema deve essere sangue, sperma e lacrime”. Vi ricorda qualcuno?
L’approccio forzatamente autoriale cozza pesantemente con quello che effettivamente ci viene mostrato; la drammaticità tanto ricercata (così come il romanticismo) viene sepolta dai poco efficaci tentativi di provocare ad ogni costo, tentativi sempre mascherati da un piglio estetico lezioso ed artefatto. Persino la componente erotica risulta piatta e fredda.
Love è in definitiva un esperimento cinematografico masturbatorio ed autoreferenziale ai massimi livelli, che forse potrà essere compreso ed apprezzato soltanto dagli estimatori del regista. Tenendo sempre presente che de gustibus non disputandum est, sfatiamo il mito che i film d’autore debbano necessariamente piacere (e che se così non è, significa che lo spettatore non è in grado di coglierne le sfumature tecniche e concettuali). Tentare di spiegare l’amore attraverso un pene e una vagina in primo piano, con due attori (dalle capacità recitative poco convincenti) che si struggono per due e un quarto come due quindicenni in preda agli sbalzi ormonali provoca solo noia e fastidio. Da evitare come la peste.
Cristina Russo
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