Mia Madre, la recensione

Il nuovo film di Nanni Moretti traccia un percorso complesso attraverso i delicati labirinti dell’animo umano; è un viaggio drammatico, ma necessario, nell’abisso della perdita e nel vuoto di sentimenti. E si affida all’intensità delle interpretazioni e a una sceneggiatura articolata su livelli ora connessi, ora contrapposti. Mia Madre è la storia di Margherita (Margherita Buy), regista impegnata con le travagliate riprese del suo film sulla crisi nel mondo del lavoro. Nello stesso momento, la donna si ritrova ad affrontare, insieme al fratello Giovanni (Nanni Moretti), anche l’iter lento e inesorabile della malattia dell’amata madre Ada (Giulia Lazzarini).

Moretti racconta il cammino doloroso e ostico verso l’accettazione del lutto accostandolo a un altro tipo di cammino: quello artistico. Il set di Margherita, infatti, tra imprevisti e intemperanze, procede di pari passo con l’aggravarsi delle condizioni di salute di Ada. Questo parallelismo favorisce, in parte, l’empatia dello spettatore nei confronti della protagonista. Perché tutti noi, nella quotidianità, abbiamo avuto a che fare con devastanti problemi personali che, però, abbiamo dovuto imparare a mettere da parte, o gestire accanto al lavoro. La pellicola riesce a dipingere in maniera efficace un ritratto nitido e verosimile di una donna che lotta per non lasciarsi sopraffare dal dolore ma consapevole che, presto o tardi, dovrà affrontarne la portata devastante.

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Il film procede per ossimori e accostamenti, linguistici, emotivi, gnoseologici. Questo è evidente, in primis, nell’interazione tra Margherita e gli altri personaggi: il fratello Giovanni, dimesso alter ego e pacato pilastro; l’irrequieto divo americano (John Turturro); la madre ammalata. Ciascuno incarna valori e concetti che contaminano o si fondono con l’incertezza e la confusione esistenziale di Margherita, troppo fragile per lottare, troppo egocentrica per ascoltare. La vediamo spesso, infatti, cedere ad eccessi d’ira e dare in escandescenze, ma mai davvero in grado di far posto nella propria vita all’Altro o ammettere lucidamente i propri limiti.

A compenetrarsi e rincorrersi in un instancabile gioco di specchi sono, poi, i piani del sogno e della realtà. Sequenze oniriche dotate di consistenza empirica e situazioni – lavorative e non – grottesche al punto da sembrare surreali scandiscono il tempo del racconto, a onor del vero spesso in maniera poco fluida. Fanno luce su inconfessabili ossessioni, oppure mirano a stemperare il pathos e la tensione drammatica, sempre in primo piano, con chiassose dosi di nevrotica comicità (affidata prevalentemente al personaggio di Turturro). Buona idea ma, come si accennava, non funzionale al coinvolgimento dell’attenzione spettatoriale, anche a causa di un ritmo narrativo non propriamente dinamico.

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La fenomenologia della morte del regista di Habemus Papam sceglie come cifra stilistica lo smarrimento e la dimensione dell’incubo (valga tanto per il frequente onirismo che per la componente meta-cinematografica), invitando a interrogarsi su chi siamo veramente, a guardarci dentro senza paura di vedere. Richiesta d’aiuto o tentativo catartico, il meccanismo, sebbene di grande sensibilità, funziona ma non convince del tutto. La parziale tendenza a indulgere nel melodramma e a suscitare palesemente la commozione, man mano che si procede verso l’inevitabile epilogo, può infatti stancare, penalizzando la valenza complessiva della delicata parabola umana in questione.

Ottimi gli interpreti, tutti, a portare sullo schermo la sofferenza in ogni sua forma. Doveroso spendere qualche parola in particolare per Giulia Lazzarini, che regala una performance profondamente toccante, che non potrà lasciare indifferente il pubblico. Inoltre, chi conosce e ama la filmografia di Nanni Moretti si divertirà a rintracciare cosa e in che misura egli abbia attinto dalla propria esperienza personale e cinematografica. John Turturro improvvisa, danza e offre prove di grande istrionismo, malgrado dia talvolta l’impressione di non sentirsi perfettamente a proprio agio.

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Mia Madre è un film intimo, duro e ironico, proprio come la vita, fatto di immagini essenziali ma forti, di onestà e tenerezza. Si abbandona la sala con il cuore un po’ gonfio, gli occhi lucidi e una discreta dose di perplessità. Si pensa con dolcezza a quella persona a noi cara che non c’è più, a ricordi struggenti, ma anche al futuro. Perché se in quest’ultimo Moretti non ripone cieca e ingenua fiducia, non gli chiude nemmeno le porte. Chissà che l’elaborazione del lutto e l’accettazione della sofferenza non conducano a una nuova consapevolezza.
Mia Madre è nei cinema dal 16 aprile, distribuito da 01 Distribution.

Chiara Carnà

PRO CONTRO
  • L’onestà con cui si raccontano tematiche delicate e complesse quali dolore e la perdita.
  • Le ottime interpretazioni del cast al completo.
  • L’oscillazione reiterata tra sogno e realtà potrebbe, talvolta, confondere il pubblico.
  • Ritmo narrativo tendente alla lentezza.
  • Si tratta di un film drammatico, ma qualche indulgenza di troppo nei toni stona.
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Valutazione: 6.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Valutazione: +7 (da 7 voti)
Mia Madre, la recensione, 6.0 out of 10 based on 1 rating

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