Omaggio a Wes Craven: Il serpente e l’arcobaleno
Anche se è bene star lontani dagli schematismi troppo rigidi, si può idealmente suddividere la filmografia di Wes Craven in (almeno) due tronconi, cioè i film pre e post Nightmare – Dal profondo della notte (1984). Il capolavoro incentrato sulle gesta di Freddy Krueger è diventato infatti non solo il film per eccellenza del regista, ma anche una pietra miliare del cinema horror, al pari di altre opere nate nella nuova generazione di cineasti (Carpenter, Hooper, Romero, etc.); Nightmare è inoltre un film-simbolo dell’horror anni Ottanta, almeno del cinema horror più riuscito e maturo, rappresentazione di una nuova estetica e di nuove sperimentazioni narrative, e fa dunque da spartiacque fra un prima e un dopo: il new-horror non è infatti un genere unico e uniforme, ma conosce un’evoluzione stilistica e narrativa anche nel singolo corpus di ogni autore – basti pensare alla differenza tra l’opera prima di Craven, L’ultima casa a sinistra (1972) e Nightmare, che ne rappresenta la piena maturità (senza nulla togliere ad altri significativi film precedenti). Dopo di questo, Craven prosegue nell’esplorazione di nuovi territori all’interno del cinema horror: Le colline hanno gli occhi II, tentativo poco riuscito di rinverdire i fasti del primo con il nuovo gusto eighties, il film-tv Sonno di ghiaccio, il sottovalutato Dovevi essere morta e soprattutto Il serpente e l’arcobaleno (1988), per poi chiudere il decennio con il cult Sotto shock. The Serpent and the Rainbow è sicuramente, se non un capolavoro, una fra le opere maggiori, più riuscite e significative di Craven, nonché uno fra i più originali zombi-movie.
IL FILM
È uno dei rari casi in cui un film di Craven è tratto da un libro, l’omonimo di Wade Davis, ma non per questo il regista rinuncia alla sua personale poetica – anzi, è una delle pellicole più “craveniane” in tal senso. Dennis Allan (Bill Pullman) è un giovane ricercatore scientifico americano: durante un viaggio in Amazzonia, assume da uno sciamano una droga che gli provoca terribili visioni e presagi di morte. Rientrato in patria, viene subito ingaggiato da un’azienda farmaceutica per una difficile missione: recarsi ad Haiti e scoprire la formula della cosiddetta “droga degli zombi”, una sostanza che gli scienziati sperano di poter utilizzare come anestesia. La società che finanzia la spedizione fornisce ad Allan una fotografia ritraente un uomo morto anni prima ma visto di recente in un ospedale haitiano: tale foto è ritenuta una possibile prova dell’esistenza dei morti viventi, ed è proprio da questa persona che lo scienziato deve iniziare le proprie indagini, per scoprire il collegamento fra la droga e gli zombi. Ad Haiti incontra però un clima ostile, sia per la reticenza dei nativi riguardo la loro cultura, sia per la temutissima polizia militare del dittatore Duvalier, comandata dal crudele capitano Peytraud (Zakes Mokae).
La ricerca di Allan inizia dalla dottoressa Marielle Duchamp (Cathy Tyson), direttrice della clinica dove è stato avvistato Cristophe, il presunto morto vivente della fotografia: la donna è legata alle superstizioni popolari e al culto del Voodoo, ma la sua mentalità aperta la induce ad aiutare lo scienziato. Scoprono così che Cristophe è stato trasformato in zombi dallo stregone Peytraud, attraverso la famigerata sostanza e un rito magico che gli consente di imprigionare la sua anima: così vengono eliminati coloro che osano opporsi alla dittatura. Oltre alla dottoressa, solo due bizzarri individui – Celine e Mozart – aiutano Dennis, che riesce a trovare la sostanza e la relativa formula ma viene catturato dalla polizia e rispedito negli Stati Uniti: la magia Voodoo lo raggiunge anche qui, e decide quindi di tornare ad Haiti per aiutare Marielle ed eliminare Peytraud.
UN FILM PERSONALE
Il serpente e l’arcobaleno è uno tra i film più personali di Craven, sia perché tratta il tema zombi in modo del tutto differente rispetto a quanto siamo abituati a vedere, sia perché affianca la narrazione a potenti squarci onirici – visioni terrificanti, sogni e allucinazioni che riprendono in parte le atmosfere di Nightmare ambientandole però in un contesto differente.
Non è la prima volta che il regista mette in scena dei morti viventi, ma lo fa sempre con una vena autoriale propria che non scade nei cliché né vuole imitare il modello di Romero (quello che andava per la maggiore): prima del film in esame avevamo visto un inquietante morto vivente molto sui generis e quasi fantascientifico in Dovevi essere morta (Deadly Friend, 1986), che inizia come un fantasy per ragazzi ma si trasforma pian piano in un horror macabro e struggente. La “morta” del titolo è una ragazza uccisa per errore dal padre e che il suo giovane amico riporta in vita innestandole un circuito elettrico nel cervello, dunque siamo un po’ nei dintorni di Cimitero vivente, Il ritorno dei morti viventi 3 e Zeder – con la persona amata che viene riportata in vita come zombi ma con effetti letali.
Nel Serpente e l’arcobaleno ci spostiamo invece in quella che è la patria per eccellenza degli zombi, cioè Haiti, la terra del Voodoo dove vari registi hanno ambientato dei capisaldi del genere: White zombie (1932) di Victor Halperin, Zombi 2 di Lucio Fulci e – seppure non sia proprio Haiti ma con ambientazione e atmosfere simili – il classico di Jacques Tourneur Ho camminato con uno zombi (1943). Craven immerge così lo spettatore in un’atmosfera di mistero e magia, dove la superstizione si fonde col raziocinio, la religione cattolica con le credenze pagane, il Baron Samedi convive con gli stregoni, i morti che tornano dalla tomba e la crudele polizia militare. Rispetto a Deadly Friend ci troviamo quindi in un’ambientazione più classica e più affascinante, che Craven ha il merito di trasformare in una vicenda complessa fatta di magia nera, scienza e politica, una storia inquietante e allucinatoria che riecheggia la visionarietà di Fulci e degli Stati di allucinazione di Ken Russell – seppure in modo meno estremo e psichedelico rispetto a quest’ultimo.
DALLA CARTA AL GRANDE SCHERMO
L’opera letteraria da cui il film è tratto non è un romanzo ma il saggio scientifico sul Voodoo The serpent and the rainbow di Wade Davis, in cui lo scienziato analizza la base farmacologica del fenomeno zombi (ecco perché viene riportato all’inizio che “Quanto segue è ispirato a una storia vera”): dal punto di vista narratologico, Bill Pullman veste un po’ i panni di Davis, e infatti sentiamo spesso la voce fuori campo del protagonista che commenta quanto accade), mentre sull’ultima inquadratura compare una scritta che indica lo stato attuale delle ricerche in questo campo.
Naturalmente Craven non vuole trasporre uno studio, ma una vicenda di finzione basata comunque su ricerche scientifiche: dunque, affronta il classico tema dei morti viventi da un lato de-mitizzandone la natura (gli zombi sarebbero persone vive e sotto effetto di una droga), dall’altro portandone avanti l’inquietudine, il fascino, la suggestione della magia e del mito. I due elementi del titolo, come spiega una didascalia all’inizio, sono due elementi-cardine della cultura Voodoo – il Serpente come simbolo della Terra e l’Arcobaleno come simbolo del Paradiso, fra i quali tutte le creature vivono e muoiono. Craven realizza anche uno studio storico e antropologico abbastanza accurato, con la dittatura Duvalier e la descrizione dei misteriosi riti Voodoo, compreso un accenno (per bocca della dottoressa Duchamp) alla sua nascita come commistione fra cattolicesimo e culti pagani importati dall’Africa. Tre sono, in sostanza, gli aspetti fondamentali del film: il legame tra zombi e controllo politico, la dimensione più squisitamente orrorifica e allucinatoria, la discussione del rapporto fra scienza e magia.
MORTI VIVENTI E CONTESTO SOCIALE-POLITICO
Se Romero trasformava gli zombi in una metafora sociologica del capitalismo e del consumismo, Craven dirige un film meno conosciuto rispetto alla trilogia romeriana ma altrettanto coraggioso nella messa in scena del rapporto tra zombi e potere. Qui non siamo in un discorso metaforico, ma in una dimensione più concreta: gli zombi che vediamo nel nostro film sono gli avversari politici del dittatore Duvalier, che il mefistofelico capitano Peytraud (fra i caratteri più riusciti della storia, grazie anche all’espressione diabolica dell’interprete di colore Zakes Mokae) trasforma in morti viventi attraverso una particolare sostanza (quella di cui Bill Pullman va in cerca) e un sortilegio che consente di imprigionare le loro anime in vasi di vetro.
La storia è ambientata nel 1985 spiega la didascalia (escluso il prologo, che si svolge nel 1978): dunque il dittatore Duvalier a cui si fa riferimento è Jean-Claude Duvalier, figlio del famigerato “Papa Doc” François, che prese il potere alla morte del padre (1971) fino alla rivolta del 1986 che lo costrinse a lasciare il Paese – evento storico di cui troviamo traccia verso la fine del film. Duvalier instaurò un regime di terrore ricorrendo come il padre ai temutissimi “Tonton Macoutes”, la polizia militare i cui membri avevano la doppia valenza di poliziotti e stregoni, e di cui il personaggio di Peytraud è una perfetta espressione. Naturalmente Craven non ha la pretesa di mettere in scena una rigorosa descrizione storica, ma al contempo la situazione politica di Haiti si innalza al di sopra del semplice sfondo per diventare una componente fondamentale del film; il culto Voodoo e il terrore militare vanno di pari passo, e le camere di prigionia e tortura in cui riecheggiano le urla dei detenuti sono altrettanto inquietanti della dimensione magica (le braccia che sporgono dalle sbarre ricordano molto quelle degli zombi, e le immagini in cui Pullman viene torturato fisicamente e psicologicamente dal capitano e i suoi sgherri sono molto crude).
Gli zombi, una volta tanto, non sono un vero nemico, fanno paura ma sono innocui, non vanno in cerca di carne umana ma sono dei poveracci che la crudeltà dell’uomo ha reso folli, deambulanti in una dimensione fra la vita e la morte e per questo impazziti.
(IR)REALISMO MAGICO
Il serpente e l’arcobaleno è un film sugli zombi ma non solo, è innanzitutto un “film dell’orrore” nel senso più compiuto del termine, una pellicola in cui la paura e il raccapriccio emergono quasi da ogni scena. Già nel prologo vediamo cerimonie Voodoo (con tanto di Baron Samedi) e una sepoltura che diventa ancora più angosciante quando vediamo dentro la bara scendere una lacrima dall’occhio di Christophe. La presentazione del protagonista (un Bill Pullman non ancora famoso ma già efficace e perfettamente in parte) avviene in un contesto apparentemente estraneo al resto della storia, cioè in Amazzonia: in realtà, questa lunga sequenza allucinatoria ci introduce in quello che sarà la sostanza del film e conferisce una dimensione “magica” a Dennis Allan. Dopo aver bevuto una sostanza allucinogena preparatagli dallo sciamano, lo vediamo infatti in preda a visioni: la lotta con un leopardo (che diventerà il suo spirito guida), la terrificante apparizione premonitrice di Peytraud e una discesa negli inferi con le mani che sorgono dalla terra e lo trascinano fra scheletri e teschi – come se la droga assunta gli desse la possibilità di leggere il suo futuro. Ovviamente, da buon uomo di scienza Allan non presta fede a quanto accaduto, e una volta tornato nella società civile accetta subito di ripartire per una nuova missione forse ancora più difficile: nel corso del film lo vedremo cambiare opinione sul soprannaturale, e anche un positivista convinto come lui finirà per rendersi conto che il confine tra reale e irrazionale è più che mai labile.
L’ambientazione haitiana, grazie a un certosino lavoro sulle location, le scenografie e le musiche “popolareggianti” di Brad Fiedel, è suggestiva come poche altre volte e immerge lo spettatore in una “terra di confine”, un luogo sospeso dove tutto può accadere. E per “tutto” si intendono naturalmente le cose più terribili. Lo scienziato conosce l’affascinante dottoressa Duchamp e si muove attraverso ospedali psichiatrici, villaggi poverissimi, cimiteri, cerimonie, feste pagane e squallide bettole. Marielle Duchamp, interpretata dall’affascinante attrice mulatta Cathy Tyson, è un’altra figura importante e ben costruita: anche lei come il ricercatore è una donna di scienza, ma al contrario di lui (che dovrà ricredersi col tempo) è aperta alla magia, dunque all’irrazionale – per lei ragione e soprannaturale non sono in contrasto, tanto che la vedremo in una festa danzare “posseduta” da qualche spirito – e fa da guida allo sprovveduto americano aprendo la sua mente a orizzonti impensabili.
Se da un lato la narrazione procede linearmente con lo svolgersi dei fatti, all’aspetto narrativo si intervalla uno più visionario (dal gusto quasi fulciano, potremmo dire), basato cioè su incubi e allucinazioni che assalgono lo sprovveduto Pullman, e nei quali Craven ha modo di manifestare appieno la sua creatività – insieme a Nightmare, Il serpente e l’arcobaleno è uno dei suoi film più onirici e “artistici”. Vedremo degli autentici “tableaux vivants”: oltre all’incipit in Amazzonia già descritto, ecco una donna col volto di scheletro dalla cui bocca esce un serpente, la casa che si restringe e diventa una bara piena di sangue in cui il protagonista è rinchiuso, il leopardo (suo “spirito custode”), una barca in fiamme, la mano decomposta che emerge dal piatto durante il breve rientro negli USA. Agghiacciante infine tutta la parte “psichedelica” in cui Pullman, rimasto vittima della droga, vaga per le strade in stato confusionale per poi essere dichiarato morto e sepolto vivo: scopre quindi nel peggiore dei modi gli effetti della sostanza da lui cercata, trasformandosi lui stesso in una sorta di “zombi” che esce dalla bara e si muove sul baratro della follia – paradossalmente, viene salvato dalla tomba proprio da Cristophe, lo zombi da cui sono iniziate le sue ricerche.
SEPOLTURA PREMATURA
Il tema del “sepolto vivo” può vantare una serie di innumerevoli presenze nel cinema e nella letteratura horror: ci possono essere suggestioni dalla Sepoltura prematura di Poe e dalle relative trasposizioni cinematografiche, ma innanzitutto è una delle paure più terribili dell’essere umano – e Craven si dimostra quindi ancora una volta un maestro nel rappresentare gli incubi dell’uomo; non sappiamo se ci sia stata un’influenza diretta, ma vengono in mente in particolare due film di riferimento, Paura nella città dei morti viventi (1980) di Lucio Fulci, con Catriona McColl che viene sepolta viva e salvata in extremis, e soprattutto La corta notte delle bambole di vetro (1971) di Aldo Lado: Bill Pullman ora, come Jean Sorel allora, sono in stato catatonico, apparentemente morti, e assistono inermi alla loro sepoltura cercando inutilmente di far capire agli altri che sono ancora vivi. Questa è sicuramente una fra le scene più spaventose del film, ma ce ne sono molte altre da incubo: la donna zombi nel manicomio (che ha il potere di terrificare con uno sguardo non solo il protagonista ma anche lo spettatore), l’improvvisa apparizione dello spiritato zombi Cristophe nel cimitero notturno, la preparazione della droga nel medesimo cimitero col disseppellimento di un cadavere, lo scorpione che esce dalla bocca del defunto amico Celine (Paul Winfield), fino alle varie sequenze ambientate nell’antro dello stregone Peytraud.
Nel corso della vicenda, si fa largo man mano l’ipotesi che in realtà i defunti non tornino dalla morte, ma la sostanza provochi una morte apparente che fa risvegliare le vittime dentro la tomba. Rispetto allo studio scientifico di Wade Davis, la regia si mantiene volutamente (e giustamente, visto che siamo in un film horror) sul vago, lasciando allo spettatore il dubbio e la suggestione, per poi virare in un finale decisamente soprannaturale – e anzi con toni pseudo-fantasy che sono forse l’unico punto debole del film. Vediamo infatti le anime liberarsi dai vasi di vetro e lo spirito del giaguaro penetrare nel corpo di Pullman (il tutto attraverso figure ectoplasmatiche in stile Poltergeist), che inizia così una lotta furiosa con Peytraud: una scena avvincente, ma forse un po’ fuori luogo visto il tono lugubre e comunque “serio” della pellicola.
Notevole, come spesso accade nei film di Craven, la costruzione dei personaggi – in particolare Allan e la Duchamp, che danno vita (oltre a un romantico amplesso in una grotta) a interessanti dialoghi sui rapporti fra scienza e magia, razionalità e soprannaturale.
Davide Comotti
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