Race – Il Colore della Vittoria, la recensione

Di film sullo sport ne abbiamo visti in abbondanza e negli ultimi anni sembra che questo argomento abbia riacquistato grande interesse, soprattutto con produzioni incentrate sulla vita di reali campioni del passato: dall’automobilismo di Rush al ciclismo di The Program, fino all’atletica leggera di Unbroken. Ed è proprio a quest’ultima categoria che appartiene anche Race – Il colore della vittoria, che riporta sotto i riflettori la storia di James Cleveland Owens, detto Jesse, atleta americano di colore per partecipò alle Olimpiadi di Berlino del 1936 dove fu la vera star dei Giochi.

Dato l’argomento tra le mani, è scontato che gli sceneggiatori Joe Shrapnel e Anna Waterhouse mettessero al centro del film non solo il biopic su uno dei più grandi atleti della storia d’America, ma anche una vicenda che parla di razzismo. E la scelta del titolo è emblematica, vista l’ambivalenza fondamentale che la parola “race” ha, capace di riassumere efficacemente le due costanti del film: la “gara” e la “razza”.

Race – Il colore della vittoria segue, nel più classico dei modi, la vita di James Owens, dalle problematiche di un bambino afroamericano immerso nella realtà metropolitana statunitense degli anni ’20, ai primi passi nel mondo dello sport, supportato dal suo insegnate di ginnastica del liceo Larry Snyder, fino a distinguersi brillantemente ed essere scelto per rappresentare gli Stati Uniti nelle Olimpiadi della Germania nazista, con conseguente vittoria di ben quattro medaglie, che gli hanno fatto anche guadagnare un record.

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Va da sé che l’impostazione alla base di Race è quella del film di riscatto e di raggiungimento del cosiddetto Sogno Americano, per il cui principio chiunque può vedere la propria autoaffermazione attraverso l’impegno e la forza di volontà individuale, nonché le opportunità che gli USA possono offrire a tutti.

L’efficacia del film, diretto da Stephen Hopkins, che era lontano dal grande schermo dai tempi dell’horror apocalittico I segni del male (2007), sta probabilmente nella sua enorme classicità di stile e racconto. Il rigore della messa in scena, la linearità della trama, la bravura e aderenza ai ruoli del cast sono tutti chiari indicatori dell’impostazione alla base di questo progetto, che sembra voler richiamare proprio l’epoca d’oro in cui è fiorito il tipo di cinema che Race rinvigorisce, ovvero gli anni ’70.

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Quindi Race – Il colore della vittoria potrebbe non essere un film adattissimo a tutti, forse più vicino a un pubblico adulto che certo cinema lo mastica meglio.

Se da una parte la retorica che sta inevitabilmente alla base di Race a tratti è risaputa e getta sul film quell’alone di già visto, dall’altra è lodevole la scelta di non scadere mai nello stucchevole cercando di imbandire attorno a tematiche di rilevanza sociale e storica l’epopea di un atleta, con tutta quella portata enfaticamente epica e coinvolgente che questo comporta. Avremo, dunque, una prima parte più standard, con la formazione di un futuro campione, le sue vicende personali fatti di amori e incomprensioni famigliari, e una seconda scandita dal ritmo delle gare olimpiche, su cui Hopkins riesce a catturare l’attenzione dello spettatore portandolo efficacemente a immedesimarsi con il protagonista e tifare energicamente per lui.

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Nella prima tranche del film ad emergere maggiormente è forse la figura dell’allenatore Larry Snyder, ben caratterizzata da un Jason Sudeikis solitamente impegnato in ben altri ruoli. Poi subentra la competizione e ben rimane impressa nella mente dello spettatore – tra una gara e l’altra – la figura storica di Leni Riefenstahl, interpretata dalla stupenda Melisandre di Game of Thrones Carice van Houten, celebre regista incaricata da Goebbels di fare un film che celebrasse la superiorità tedesca durante le Olimpiadi (da cui nacque il documentario Olympia del 1938) e che invece molto concesse all’esaltazione dell’immagine di Owens. E da qui tutta una serie di scelte narrative votate a mostrare l’ostilità del Terzo Reich verso la figura del campione americano, tra cui l’ormai storica mancata stretta di mano di Hitler a Owens, smentita da quest’ultimo pubblicamente anni più tardi.

Con piccoli ruoli anche per Jeremy Irons e William Hurt, ovviamente a spiccare è il protagonista Stephan James, già visto in Selma – La strada per la libertà e particolarmente aderente al ruolo, nonché somigliante al vero Owens.

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James Owens è stato sportivamente eguagliato dal connazionale Carl Lewis nel 1984, è stato proclamato Ambasciatore dello Sport dal Presidente Eisenhower nel 1955 e premiato con la Medaglia presidenziale della Libertà nel 1976 dal Presidente Ford. La sua vita è stata un esempio per molti e in molti ritengono che la sua vittoria sia un simbolo della lotta al razzismo e alla segregazione. Con Race – Il colore della vittoria si rende omaggio a un grande uomo e lo si fa nel più classico dei modi, con un film rigoroso e godibile come sempre più raramente se ne vede. Riceverà di sicuro critiche legate al suo essere stilisticamente “fuori tempo massimo”, ma non importa se questo è il prezzo da pagare per il buon cinema.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Un film ordinato e coinvolgente che ben sa trattare una tematica abbondantemente sfruttata.
  • Bravi e ben scelti gli attori.
  • La seconda parte che scandisce le fasi delle Olimpiadi riesce a far immedesimare lo spettatore con il protagonista.
  • Il classicismo stilistico e narrativo potrebbe far storcere il naso allo spettatore più moderno e abituato ad altri ritmi.
  • La prima parte è molto risaputa nella costruzione.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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