Sacro GRA, la recensione

Con i suoi 70km il Grande Raccordo Anulare che circonda Roma è la più estesa autostrada urbana d’Italia. Setacciando questo perimetro che abbraccia la Capitale possiamo trovare persone che fanno, dicono e vivono nei modi più disparati, rappresentando di fatto un vero e proprio microcosmo. Dall’etologo che studia i parassiti delle palme ed è alla ricerca di un metodo naturale per combatterli, al nobile decaduto che abita con la figlia adolescente in un monolocale di un moderno complesso condominiale che si affaccia sul raccordo, passando per il pescatore di anguille, l’attore di fotoromanzi, il principe proprietario di un piccolo castello, la senzatetto che vive in un camper sul bordo della strada e il barelliere che passa intere notti in servizio su un’ambulanza.

Era dal 1998 che un film italiano non vinceva il Leone d’oro al Festival di Venezia, ovvero da Così ridevano di Gianni Amelio. Ed era dal 2009 con Capitalism: A Love Story di Michael Moore che un documentario non veniva presentato in concorso. Quest’anno, un po’ a sorpresa e tra molte perplessità dei critici, un italiano torna a vincere l’ambita statuetta del Lido, è Gianfranco Rosi e il suo Sacro GRA è un documentario.

Forse però l’etichetta di documentario sta davvero stretta al lavoro di Rosi perché, pur trattandosi di un opera non di fiction, Sacro GRA è quanto di più lontano possiate immaginare da quello che comunemente è inteso come documentario. Il film è formato da tante microstorie vere, alcune raccontate da un singolo episodio di pochi minuti (le due ragazze che si guadagnano da vivere ballando in un disco-bar, per esempio), altre più approfondite che vengono mostrate a più riprese. Le persone diventano personaggi, sono se stessi ma sembrano quasi recitare un copione, hanno quelle “facce da cinema” che quasi si fatica a credere che stiano lì, nelle loro case, alle prese con il loro lavoro, semplicemente a vivere. Ci si affeziona a molti di loro, come il simpatico pescatore di anguille a cui Rosi dedica purtroppo poco tempo, oppure il barelliere dell’ambulanza e alle sue tenere vicende famigliari, oppure il nobile che disquisisce di episodi di vita passata con la figlioletta sempre presa dal suo notebook. Forse la vera definizione di Sacro GRA sarebbe “film ad episodi”… si tratta di episodi reali, spaccati di vita vera capitolina, il linguaggio è molto, troppo cinematografico, facendoci apparire quest’opera molto vicina a quei film di fiction che non hanno un unico protagonista, ma tanti, alle prese con una propria storia ciascuno. Poi, come accade in ogni film antologico, ogni episodio non è all’altezza degli altri e se quelli su citati si fanno seguire con interesse e colpiscono immediatamente il cuore degli spettatori, ce ne sono altri che spezzano il ritmo e risultano pesanti e poco interessanti, come le vicende dell’esperto di parassiti delle palme e quelle della senza tetto che passa il tempo a cantare sui bordi del raccordo.

Un'immagine dal film Sacro GRA

Un’immagine dal film Sacro GRA

L’idea di Sacro GRA deriva dagli studi condotti dal paesaggista Nicolò Bassetti che con la sua approfondita conoscenza topografica e urbanistica del Grande Raccordo Anulare ha ispirato Rosi in quest’avventura che è durata diversi anni di studi, riprese e montaggio. Come è giusto che sia visto che parliamo di Cinema, Rosi ha approfondito soprattutto l’aspetto antropologico del GRA, tralasciando la visione più strettamente geografica dell’ambiente e concentrandosi sulla fauna umana che lo popola.

Ottimo montaggio, bella fotografia e senso della narrazione sempre piuttosto alto, malgrado una tendenza alla prolissità che ci fa apparire il film più lungo di quanto realmente sia. Tutto ciò è valso a Rosi il riconoscimento più importante del cinema italiano. Meritato? Forse no, perché si ha la sensazione che ad essere premiato non è stato tanto il film quanto ciò che esso rappresenta (l’italianità e la novità linguistica), ma Sacro GRA è comunque un prodotto di qualità, un documentario che ci racconta la realtà come si trattasse di una commedia agro-dolce di cinquant’anni fa.

Roberto Giacomelli

 

PRO

CONTRO

  • Spiccato senso della narrazione.
  • Si tratta di una sostanziale novità per quanto riguarda il linguaggio documentaristico.
  • Non tutte le storie narrate sono realmente interessanti.
  • La durata percepita è maggiore di quella effettiva.

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