TFF35. The White Girl, la recensione
Accolto meno freddamente di quello che ci si aspetterebbe da un film del genere durante la pubblica proiezione al Torino Film Festival 2017, The White Girl mescola diversi topoi che spaziano dal cinema alla video-arte, dalla letteratura fiabesca alla cultura orientale, senza però riuscire a trovare una dimensione credibile e riconoscibile.
In un villaggio di pescatori di Hong Kong, una ragazza orfana di madre deve proteggersi dal contatto con la luce ed è per questo presa in giro dai suoi compagni e soprannominata “la ragazza bianca”. La giovane emarginata trova ben presto un amico in un giovane giapponese senza fissa dimora. Quest’ultimo diviene il suo confidente, grazie al quale la ragazza trova finalmente il coraggio di aprirsi, di decidere di smettere di essere invisibile e trattata alla stregua di un fantasma. Ma lo scontro con il piccolo villaggio sarà tutt’altro che semplice.
Film come i suoi stessi personaggi, spaesato, ingenuo e senza fissa dimora, The White Girl si esprime attraverso un linguaggio visivo esteticamente riuscito. Ma è intriso di un simbolismo che lascia davvero troppo spazio all’immaginazione e, pur cercando di risultare aperto, finisce con l’offrire ben poche risposte allo spettatore.
Due splendidi interpreti si dividono la scena cercando di tenere il più possibile fede ai non semplici intenti di regia. I due protagonisti cominciano quindi col definire la superficie dei propri personaggi consapevoli però della loro natura di immagini simboliche piuttosto che persone vere e proprie.
Diretto da Jenny Suen e dal direttore della fotografia di Wong Kar-wai, Christopher Doyle, The White Girl si dichiara una fiaba sospesa tra il romantico e il noir. Ma poi finisce per guardare alla lezione dei maestri più disparati (si susseguono nel film echi di Kim Ki-duk, Michelangelo Antonioni e Tsai Ming-liang). La sua stessa scrittura risulta spesso criptica e visionaria, ma il film riesce comunque ad essere sensazionale ed evocativo.
Tuttavia, la sua potenza di fondo non riesce a superare quel profondo baratro che è la sua stringata comunicazione verbale.
La regia a quattro mani – in stato di grazia, animata da altissime ambizioni e intenzionata a valorizzare gli spazi e i gesti – è però degna di nota.
Claudio Rugiero
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