The Bay, la recensione

Nella ridente cittadina costiera di Claridge, nel Maryland, due biologi marini durante una loro ricerca rilevano un alto livello di tossicità nell’acqua, forse causata dagli escrementi di pollo riversati nella baia da una fabbrica locale. A questo si unisce una inquietante moria di pesci, che fa allarmare le autorità. Il sindaco di Claridge però minimizza il pericolo e chiede di non creare allarmismo, soprattutto perché sta per svolgersi l’annuale Festival del granchio che è il momento clou per il turismo e l’economia cittadina. Ma la situazione si complica e quando agli abitanti di Claridge cominciano a spuntare vesciche e pustole su tutto il corpo, ci si rende conto che l’acqua è infestata da un pericoloso parassita mutato dall’inquinamento.

Nel panorama horror internazionale di una decina di anni fa c’era la tendenza dilagante a produrre mockumentary, della tipologia found footage o con un montaggio progressivo, fino ad arrivare alla saturazione (come è poi avvenuto) ma sempre e comunque con la consapevolezza che fare film in questo modo costa poco e di solito rende molto. Galeotto fu quel Paranormal Activity che rilanciò la moda, ma dal 2007 a oltranza di P.O.V. ne abbiamo avuti di ogni tipo e genere, con contaminazioni che vanno ben oltre l’horror – suo territorio abituale e più prolifico – toccando addirittura commedia (Project X – Una festa che spacca) e fantascienza (District 9).

The Bay

Nel nostro genere di riferimento forse mancava giusto un eco-vengeance, visto che alieni, zombie, demoni, serial killer e fantasmi hanno invaso in poco tempo gli schermi di mezzo mondo e proprio il papà di questo fenomeno Oren Peli, regista di Paranormal Activity, insieme al collega Jason Blum, ha messo i soldi per la produzione di The Bay.

Come da manuale, The Bay raccoglie tutti gli elementi classici dell’eco-vengeance, quelli che hanno reso popolare questo filone soprattutto tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80. Avremo quindi la piccola comunità che regge l’economia del paese su un unico evento annuale – in questo caso il Festival del crostaceo che si celebra il 4 luglio in concomitanza con il giorno dell’Indipendenza – e che si vede minacciata proprio in quell’occasione da un pericolo che viene dall’acqua, come accadeva nel seminale Lo squalo o in Piranha. Proprio come allora, le autorità e il sindaco in primis minimizzano i fatti e la popolazione ne paga le terrificanti conseguenze. E se allora la minaccia era incarnata da squali bianchi, pesci killer nell’accezione di piranha o barracuda, piovre giganti o quant’altro, in The Bay la minaccia è sempre rigorosamente generata dall’uomo e dalla sua sete di progresso (stavolta gli steroidi contenuti nel mangime per polli, i cui escrementi finiscono ad intorbidire l’acqua della baia) che porta alla mutazione degli isopodi.

The Bay

Ma cosa sono gli isopodi? Trattasi di crostacei, nello specifico di The Bay una variazione acquatica di origine parassitaria conosciuta con il nome scientifico di Cymothoa exigua o comunemente Isopode mangia lingua. Questi esserini, solitamente grandi come l’unghia di un mignolo, si intrufolano nei pesci attraverso le branchie, si ancorano alla lingua e la divorano, sostituendosi ad essa e alimentandosi con il cibo che i pesci stessi mangiano, portandoli molto spesso alla morte. Come in ogni eco-vengeance che si rispetti, poi, anche in The Bay gli animali coinvolti sono soggetti a mutazione di dimensione e così, grandi come topi, attaccano anche l’uomo non limitandosi a mangiare la lingua – che già di per se sarebbe terribile – ma divorandone gli altri organi interni.

L’idea, che è venuta al regista Barry Levinson venendo a conoscenza di un fatto realmente accaduto nel 2009 in una cittadina nel Golfo della California, è di quelle di grande impatto che si presta a generare un horror sufficientemente raccapricciante indicato alle platee estive. L’interesse poi è accresciuto anche dalla tecnica utilizzata, che nella fattispecie fa uso di ben 21 punti di vista differenti, tra IPhone e fotocamere Point & Shoot e CCTV.

The Bay

Ma a conti fatti The Bay delude e trova proprio nel linguaggio del mockumentary uno dei suoi punti deboli. Innanzitutto, un così vasto parco di punti di vista, con conseguente mancanza di veri personaggi principali (si, c’è la voce narrante della reporter Donna Thompson che vuole diffondere i fatti a cui è sopravvissuta, ma non possiamo considerarla il vero “occhio dello spettatore”), tende a disperdere narrazione e azioni, causando di conseguenza mancanza di coinvolgimento e immedesimazione da parte dello spettatore. Proprio quella che è normalmente una caratteristica vantaggiosa del P.O.V., dunque, qui va a perdersi in un ibrido tra il documentario rozzo e il videoblog. Come conseguenza, nel film ci sono molte, forse troppe, chiacchiere, con continue sessioni di spiegazione dei fatti a discapito dell’azione e della tensione. Levinson per lo più non gioca a spaventare, le scene di suspense si possono contare sulle dita di una mano e alcune di esse si risolvono troppo in fretta. Qua e là si gioca con il ribrezzo, invece, con le impressionanti conseguenze che l’azione dei parassiti ha sul corpo di chi li ospita, che generano pustole, vesciche e in rari momenti sanguinosi anche carne corrosa e perforata.

The Bay

Malgrado questo suo intento di estremo realismo, The Bay usufruisce di un montaggio, di una colonna sonora e soprattutto effetti sonori per sottolineare le scene di spavento, andando così a tradire un po’ gli intenti e avvicinandosi alla costruzione di cui usufruiva uno dei primi film moderni di questo tipo, Diary of the Dead – Le cronache dei morti viventi di George Romero.

The Bay è un’occasione in parte sprecata, uno strano oggetto che si tuffa a capofitto nell’onda mockumentary non riuscendo a cogliere ne i pregi di questa tecnica ne quelli del filone eco-vengeance a cui si ascrive.

Curioso notare al timone di quest’opera a basso budget e per giunta di genere ci sia il premio Oscar Barry Levinson, regista di film come Good Morning Vietnam, Rain Man e Sleepers.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • L’idea di base è vincente: unire l’eco-vengeance classico con il linguaggio del mockumentary.
  • Alcune scene davvero raccapriccianti e in un film di questo tipo è necessario.
  • La moltitudine di punti di vista finisce per annullare il coinvolgimento spettatoriale.
  • Non rispetta le regole base del falso documentario risultando meno efficace di quello che sarebbe potuto essere.
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