The Judge, la recensione
Il regista David Dobkin, ‘reo’ di aver sfornato un gruzzoletto di commediole dimenticabili quali 2 single a nozze e Cambio vita, ha pienamente riscattato se stesso con The Judge, l’emozionante thriller giudiziario – nonché struggente parabola familiare – nelle nostre sale dal 23 ottobre grazie a Warner Bros. Mattatori indiscussi e monumentali di una vicenda sorprendentemente coinvolgente, in grado di catturare mente e cuore, sono il mostro sacro Robert Duvall, Premio Oscar nel 1984, e una delle star più amate dal pubblico internazionale, Robert Downey Jr. I due interpretano Joseph e Hank Palmer: padre e figlio, giudice e avvocato, consanguinei ma estranei. Hank è un professionista spietato e dalla lingua tagliente, con un matrimonio prossimo alla rottura e una figlioletta che adora. Quando l’anziana madre viene a mancare, Hank è costretto a lasciare Chicago e tornare nella cittadina dell’Indiana in cui è cresciuto. Ciò implica affrontare il severo padre e i due fratelli, il brusco Glen (Vincent D’Onofrio) e il fragile Dale (Jeremy Strong), che negli ultimi vent’anni ha rigorosamente tenuto a distanza. Tuttavia, la male assortita riunione familiare non si concluderà col funerale, come auspicherebbe Hank… Suo padre, infatti, viene improvvisamente accusato dell’omicidio di un avanzo di galera che lui stesso, in quanto giudice della città, aveva condannato anni prima. Hank non esiterà ad assumere la difesa del padre in tribunale, ma la vicenda giudiziaria andrà di pari passo con quella intima dei due protagonisti, trasformandosi in un’occasione per lasciar sfogare ogni risentimento e rancore represso nel corso degli anni. E, chissà, magari anche per salvare un rapporto inevitabilmente compromesso, ma non irreversibile.
The Judge ha il pregio di riuscire a raccontare il conflitto generazionale per antonomasia in maniera incisiva e appassionata, ricordando la rabbia vibrante e travolgente respirata in un capolavoro come La Gatta sul Tetto che Scotta (1958), costruito a sua volta attorno burrascosa situazione familiare. Sono numerose le sequenze destinate a colpire lo spettatore in virtù del notevole impatto emotivo e del significativo contenuto che vogliono veicolare. Non sarà difficile identificarsi e, perché no, riconoscere momenti del proprio vissuto nei difficili trascorsi tra Joseph e Hank. A tal proposito, tantissimo si deve, naturalmente, alle eccezionali interpretazioni di Duvall e Downey Jr e alla loro straordinaria alchimia; i loro personaggi sono sì frutto di un’impeccabile scrittura, ma, al tempo stesso, arricchiti dai due istrionici performer di infinite e complesse sfumature. Padre e figlio hanno un disperato bisogno di esprimere all’altro i propri sentimenti ma i loro cuori, intorpiditi dal tempo e dal silenzio, non fanno che alimentare animati litigi e aspri rimproveri. Nei momenti di più drammatico bisogno, però, l’amore prevale sull’individualità con una tale spontaneità e naturalezza da non poter fare a meno di lasciare il segno. Interessanti e vividi anche alcuni dei comprimari. Su tutti, il già citato Glen Palmer, che ha la massiccia fisicità di un bravo Vincent D’Onofrio, e Samantha Powell, ex fiamma di Hank languidamente interpretata da Vera Farmiga.
Su un binario parallelo si sviluppa e consuma, come si accennava, la vicenda giudiziaria, nell’ambito della quale non mancheranno tiri mancini e colpi di scena. Tali sequenze si ritagliano con disinvoltura il proprio spazio nell’economia della diegesi, amalgamandosi in perfetto equilibrio con la vicenda umana dei protagonisti e regalando momenti gustosi. Questo pur non fuggendo qualche passo falso, che indugia nel facile sentimentalismo e intacca, talvolta, l’efficacia dell’insieme. Il fatto che le due vicende si dipanino e influenzino contemporaneamente è significativo, perché fa sì che il pubblico non possa fare a meno di assorbire le individualità di Hank e Jospeh indipendentemente dalle loro professioni, consustanziali al loro modo di essere. Il labirintico cammino emozionale dei Palmer, il loro fare un passo avanti e due indietro, è, infatti, intimamente connesso alla loro etica professionale, rappresentando un aspetto affascinante della loro psicologia. Complessivamente, dunque, il percorso di crescita di ciascun protagonista è condotto con coerenza e grande cura. La narrazione, dal canto suo, mantiene costantemente un ritmo dinamico, sebbene non incalzante, malgrado i 141 minuti di durata della pellicola. Tale risultato è perseguito grazie anche a un sobrio e parsimonioso uso di un garbato umorismo, verbale e non, stemperato ad hoc per alleggerire la tensione.
The Judge, dal punto di vista tematico e narrativo, non spiccherà per originalità, ma si distingue per essere un buon prodotto che, puntando sulla commistione di generi, dipinge un efficace spaccato dell’America delle province e una serie di ritratti umani che si lasceranno ricordare e, forse, ci faranno versare anche qualche lacrima. E’ un film destinato a parlare a un’ampia fetta di pubblico, che potrebbe incontrare le ritrosie solo di quei palati ‘duri e crudi’ e poco inclini ad abbandonarsi all’introspezione.
Chiara Carnà
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