L’uomo che uccise Don Chisciotte: una recensione del film di Terry Gilliam dal Festival di Karlovy Vary

Terry Gilliam sale sul palco della sala grande del centro congressi Thermal, sancta sanctorum del Festival di Karlovy Vary, brandendo un bicchiere di Becherovka, celebre liquore digestivo prodotto in città. Allegro e rubicondo, si produce poi in molteplici inchini a favore del pubblico: si può essere istrioni anche restando dietro la macchina da presa e questo film vuole dimostrarcelo.

Nell’Europa di Cervantes, come in quella di oggi, non è più tempo d’eroi. Nel romanzo barocco, come nel cinema e, più in generale, nell’universo mediatico post-moderno, il racconto non è più lo specchio della realtà: mulini a vento e giganti, grattacieli e supereroi, crisi economiche e fake news. Il senso di spaesamento, di ritorno a precedenti epoche buie, vissuto dall’intero Occidente negli ultimissimi anni, emerge con grande chiarezza in una scena del film, ambientata in un villaggio gitano. Ma il vero contenuto politico di questo Don Chisciotte è nella riflessione sul cinema stesso, sul suo rapporto con il mercato, da una parte, e gli ideali, dall’altra.

Già presentato fuori concorso all’ultimo Festival di Cannes, The Man Who Killed Don Quixote (2018) è, come noto, il coronamento di un’odissea produttiva lunga quasi un trentennio, avviata ufficialmente nel lontano 1990. Sin dalla seconda stesura della sceneggiatura, firmata da Gilliam e Tony Grisoni nel 1998, è un uomo dei nostri giorni, risucchiato magicamente nel XVI secolo, ad affiancare Don Chisciotte nelle sue peregrinazioni, al posto dello scudiero Sancho Panza. Il nome di questo personaggio di finzione, Toby Grisoni, ne denuncia apertamente il carattere di alter ego dello sceneggiatore. Chi sia l’alter ego in scena del regista è ovviamente presto detto. The Man Who Killed Don Quixote è un film meta-cinematografico, ma la sua tormentatissima genesi ne ha fatto qualcosa di più: un film metafora del proprio realizzarsi. L’analogia tra il visionario hidalgo di Cervantes e il regista, all’utopico inseguimento del proprio progetto, è in tal senso evidente e il finale della pellicola ce lo conferma.

Il documentario Lost in La Mancha (2002) ha raccontato il fallimento della prima produzione, avviata nel 2000, presentando anche parte del girato, con Jean Rochefort nei panni di Don Chisciotte e Johnny Depp in quelli di Grisoni. In precedenza, si erano fatti i nomi di Sean Connery e Danny DeVito, John Cleese e Robin Williams. Nei progetti successivi al 2005, il casting ha visto poi susseguirsi Robert Duvall, Michael Palin e John Hurt, nel ruolo di Don Chisciotte, e Ewan McGregor, Jack O’Connell e Adam Driver, in quello di Grisoni. Più di qualunque cifra di budget, la quantità e la qualità dei nomi coinvolti danno l’idea della consistenza del progetto, del carico di aspettative che lo ha col tempo circondato e delle relative vicissitudini realizzative e contrattuali. Confermato Driver anche in questa versione definitiva, il ruolo di Don Chisciotte è infine toccato a Jonathan Pryce, alla sua quarta collaborazione con Gilliam e già presente nel cast del 2000 in un altro ruolo.

The Man Who Killed Don Quixote è il titolo del primo lungometraggio di Toby Grisoni, una produzione giovanile low-budget a cui il personaggio, oggi affermatissimo regista pubblicitario, guarda con grande nostalgia. Impanato sul colossale set di uno spot che ha per tema proprio la lotta contro i mulini a vento di Don Chisciotte, Grisoni torna fisicamente e con la memoria sui luoghi del suo film, ritrovandone i due attori principali: la bella – e amata – Angelica, deliziosa figlia dell’oste, e uno stralunato ciabattino, a suo tempo reclutato come Don Chisciotte. Il tempo ha cambiato Toby e Angelica, entrambi divenuti cinici e pronti al compromesso; il ciabattino si è invece talmente immedesimato nel personaggio da vivere come il vero Don Chisciotte. La sua allucinazione continua contagia, poco a poco, Grisoni, costretto dalle circostanze al ruolo di Sancho Panza in un fantastico viaggio tra passato e presente, illusione e realtà. Un viaggio iniziatico ed episodico, come nella struttura del romanzo, in cui il recupero dell’antica capacità di sognare – e di amare – si contrappone al vuoto senza rimedio della contemporaneità. Tra i passaggi più scopertamente meta-cinematografici, citiamo la sfida al cavaliere bardato di DVD e la dionisiaca festa finale, tra simboli religiosi e pulsioni molto pagane, con il produttore Stellan Skarsgård e la rapace moglie Olga Kurylenko in primo piano.

Alla fine, il bicchiere di Becherovka risulta ben più che mezzo pieno: ottima la prova degli attori, Pryce su tutti, taglienti molte battute, gustose, e inconfondibili nello stile, le pennellate visionarie che abbondano soprattutto nella seconda parte. La piccola parte vuota è, paradossalmente, la fine dell’attesa: da questo irraggiungibile Don Chisciotte ci aspettava l’imprevisto e la fascinazione del fantastico; ci si ritrova invece di fronte a un’allegoria, razionale, compiuta e amara, di cosa significhi oggi fare cinema e di cosa sia stato realizzare questo stesso film. Il mito di The Man Who Killed Don Quixote stava nella sua eterna incompiutezza: vederne chiusa la vicenda in un film rigidamente a tesi gli ha tolto forse un po’ di fascino. Gilliam è riuscito dove il re degli istrioni Orson Welles aveva fallito e, proprio per questo, perde ai punti il confronto a distanza.

Enrico Platania

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