The Neon Thriller: Too Old to Die Young di Nicolas Winding Refn
È difficile. È veramente difficile parlare di Too Old to Die Young, la serie TV di Nicolas Winding Refn, uno degli autori contemporanei che non scende mai a compromessi, che non si inclina alle regole produttive, che non cerca il riscontro facile di pubblico e critica: è uno che ha una sua poetica forte, una concezione estetica manierista e sfacciata dove la sublimazione dell’immagine (sua madre è fotografa) è superiore a ciò che si sta raccontando.
Il vero spirito del regista danese non è quello di Drive o Bronson: sono due escursioni in un cinema più appetibile per il grande pubblico che si è concesso per poi dedicarsi a progetti più personali. Ed è proprio il neo-noir con Ryan Gosling ad aver creato il fraintendimento, essendo stato (complice anche la vittoria a Cannes) il film con cui si è fatto conoscere al mondo cinefilo. I suoi (scrivo suoi non a caso) Valhalla Rising, Solo Dio perdona, The Neon Demon sono film che funzionerebbero anche muti se non fosse per le musiche del fidato Cliff Martinez (per gli ultimi due film) che potenziano enormemente tutti i simbolismi presenti in ogni inquadratura. Simbolismi che spesso la la macchina da presa di Refn ci dà tutto il tempo di contemplare, ammirare fin quasi all’ipnosi.
Non è per tutti Refn, e non è una frase fatta per millantare una certa superiorità cinefila di chi lo apprezza: è la realtà dei fatti, e la stessa cosa si può dire di tanti autori contemporanei che ciclicamente ci regalano dei terremoti cinematografici. E puntualmente c’è chi parla di shit (cito testualmente) e chi di capolavoro (molto pochi ça va sans dire) e chi saggiamente – ed oggettivamente – si pone nel mezzo. Perché spesso la moderazione è il modo migliore per spingere uno spettatore a un’esperienza visiva diversa dal solito, che può anche risultare respingente, ma rimarrà comunque unica.
E quindi com’è questo Too Old to Die Young? La trama è riassumibile in poco più di una riga: un poliziotto corrotto diviene un giustiziere di pedofili e stupratori, ed intanto un novizio boss di un cartello messicano cerca l’assassino di sua madre. Non scrivo altro non per la famigerata paura dello spoiler, ma perché per un prodotto di questo tipo non ha veramente senso soffermarsi sul plot.
Valutando l’esperienza in sé, questa serie dovrebbe essere vista da chiunque, da estimatori, detrattori e da novelli cinefili che stanno scoprendo il cinema di Refn per poter poi andare a ritroso fino alla trilogia quasi neorealista di Pusher. In queste 13 ore (10 episodi totali, di lunghezza variabile), Refn decostruisce il noir e lo rende una sorta di rito mistico, cruento e lentissimo: carrellate in tutte le direzioni esasperanti, personaggi che sembrano muoversi al rallenty nella loro imperturbabilità, piani sequenza fissi e un senso della contemplazione fuori dal comune.
E vogliamo parlare dei dialoghi? Domande a cui seguono silenzi o muti assensi, o risposte dopo un minuto di occhiate tra i due o più personaggi in scena. Siamo quasi tornati ai fasti del cinema muto, dove non c’è bisogno della parola per avere il senso compiuto di ciò che si sta guardando. Basta l’immagine… e il logos viene sopraffatto senza speranza.
Anche un inseguimento tra automobili può diventare statico, snervante fin quasi all’annullamento dell’azione in una delle tante strade perdute che conducono in un deserto senza nome. Le stesse sparatorie durano un battito di ciglia come nei migliori duelli western, perché ciò che conta sono le immagini preparatorie allo scontro, non lo scontro in sé. E sono spesso (sempre) immagini bellissime.
Il misticismo di cui si parlava emerge preponderante in uno dei topoi del cinema noir, ovvero la dark lady, che qui non è altro che l’incarnazione di una divinità pagana messicana, denominata La grande Sacerdotessa della Morte. Una guerriera armata di pistole con diamanti incastonati nell’impugnatura che libera e difende tutte le donne mercificate dal cartello, facendo da contraltare alla vicenda del poliziotto/giustiziere. E in questi abusi subiti dalle donne emerge anche una forte critica all’America, un’America vista con gli occhi innocenti di un europeo: spesso sia i pedofili che gli sfruttatori della prostituzione hanno nelle proprie abitazioni cimeli nazisti, che alla fine vengono fatti saltare in aria in una magistrale citazione di Zabriskie Point di Antonioni.
Anche l’erotismo è contemplativo: è la messa in scena di un desiderio, non dell’atto che immancabilmente inizia in concomitanza con una dissolvenza in nero. Diviene esplicito solo quando si ha a che fare con La Sacerdotessa, perché lì è un rito violento che ha poco a che fare con l’erotismo e che flirta con l’incesto ed il complesso di Edipo. I riti in Too Old to Die Young sono importanti nella misura in cui sono quasi sempre preparatori: anche toccare in modo erotico un’arma da fuoco è un rito propiziatorio per uno sterminio, brindare con una tequila, spiare l’oggetto del desiderio, etc.. È tutto un’attesa di un piacere in bilico tra amore e morte su cui Refn mette a fuoco ogni dettaglio e con la lentezza contemplativa tipica delle immagini.
Siamo proprio in un abisso di immagini mortifere, senza speranza, dove nel mondo sembrano esistere solo criminali di qualsiasi specie e gli innocenti si contano sulle dita di una mano. E per la messa in scena di questa apocalisse Refn non utilizza la televisione ma cinema dilatato, teatro grand guignol, epopea romanzesca (con addirittura un’appendice finale della durata di trenta minuti), mostra fotografica, misticismo e psicoanalisi.
Ma chiamarla serie tv non avrebbe senso, anche perché non somiglia a nulla e probabilmente mai ci sarà qualcosa che gli somiglierà: per il suo sperimentalismo ed unicità è accostabile a Twin Peaks -The Return, di cui ne riprende alcuni personaggi smaccatamente lynchani, oppure alle due miniserie di Bruno Dumont o al “supereroistico” Legion.
Non è per tutti anche perché ci si immerge e si viene trascinati in un magma al neon fatto di buio, depravazione, violenza e la speranza è la prima a morire. Non si può fare tale esperienza stanchi dopo una giornata di lavoro perché serve lucidità e attenzione per il dettaglio: c’è chi l’ha abbandonata dopo mezz’ora, chi dopo dieci minuti e chi dopo due episodi (quindi tre ore). Ma c’è chi riuscirà a goderne e viverla come l’esperienza unica che è. Siate coraggiosi.
Stefano Tibaldi
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