TSplusF20. Meander, la recensione

Quando nel 1997 il canadese Vincenzo Natali esordiva con il fanta-horror a basso budget Cube – Il cubo probabilmente non avrebbe mai immaginato di creare un instant-cult capace di dar vita a un nuovo modo di concepire il trap-movie. Eppure, a distanza di quasi 25 anni da quel piccolo film, ci troviamo dinnanzi a opere che palesemente “rubano” dal film di Natali il meccanismo e l’impianto scenico, anche se lo fanno incredibilmente bene, come accade nel francese Meander di Mathieu Turi, presentato in anteprima italiana al Trieste Science + Fiction Festival 2020, dove si è aggiudicato il premio Nocturno Nuove Visioni.

Lisa è una giovane donna francese negli Stati Uniti, reduce da un terribile lutto che l’ha gettata nella depressione. Una notte, dopo aver accettato un passaggio, Lisa viene rapita e si ritrova in una stanza metallica, provvista di un bracciale elettronico e imbragata in una tuta aderente. È solo il primo ambiente di un percorso irto di trappole che la ragazza sarà obbligata ad affrontare per poter avere salva la vita.

Se soffrite di grave claustrofobia, Meander potrebbe essere una visione addirittura insostenibile perché il francese Mathieu Turi punta il tutto per tutto su un senso di claustrofobia crescente che si riesce facilmente a trasmettere nello spettatore. Se la costruzione del film, come si diceva, ricorda molto da vicino Cube – Il cubo, con la fondamentale variante che qui seguiamo uno solo personaggio e non un gruppo, l’atmosfera di disagio causato da spazi angusti in cui strisciare ricorda invece il fenomenale mediometraggio di Shinya Tsukamoto Haze – il muro (2005). Il percorso che deve affrontare Lisa, interpretata da una bravissima Gaia Weiss, è a difficoltà crescente e prevede un incredibile sforzo fisico: muscoli, sudore, stomaco applicati a prove mortali che prevedono la presenza di acqua, fuoco, acido e lame taglienti. Un videogame strutturato a livelli di difficoltà sempre più intensa che portano una ricompensa finale.

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Come è facile aspettarsi, avendo come modelli d’ispirazione il film di Natali e quello di Tsukamoto, Meander non è un trap-movie qualsiasi e l’intrattenimento si ascrive a un discorso molto più ampio che abbraccia un livello di lettura esistenziale. La reclusione e le prove da affrontare per la protagonista sono un percorso di accettazione della sua attuale condizione; la sua è una lotta – oltre che fisica – interiore che possa forgiarla ad elaborare il recente lutto e prendere coscienza del suo ruolo nell’incidente che l’ha sconvolta. La sua battaglia è, innanzitutto, con il suo senso di colpa e portare al termine il percorso a ostacoli è fondamentalmente per lei un modo per superare il trauma. Una lettura che comunque non esula dal fatto che Meander mette davvero la sua protagonista faccia a faccia con una situazione mortale e le torture a cui è sottoposta avvengono realmente al suo personaggio.

Ottimo lavoro da parte di Mathieu Turi nella gestione degli spazi, qualità che abbiamo potuto notare già nel suo precedente film, lo zombie-movie minimale Hostile (2017), che anche mostrava una situazione da trap-movie claustrofobica e angosciante. Così come è lodevole la grande prova fisica offerta dall’unica attrice in scena, Gaia Weiss, che ricordiamo al cinema per Hercules – La leggenda ha inizio e più recentemente nelle serie tv Vikings e La Révolucion.

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Qualcuno potrebbe rimanete deluso dal finale esplicativo, ma c’è una grande coerenza nell’architettura del film e un epilogo tale rimane utile sia a differenziare Meander dagli altri film simili sia a sottolineare l’aspetto fantascientifico che pian piano diventa sempre più presente.

Insomma, un ritmo incredibilmente avvincente, colpi di scena e momenti al cardiopalma fanno di Meander un thriller/horror/sci-fi assolutamente da recuperare e una conferma per il regista/sceneggiatore Mathieu Turi che dopo essere stato regista di seconda unità per Quentin Tarantino (Bastardi senza gloria), Clint Eastwood (Hereafter), Guy Ritchie (Sherlock Holmes – Gioco d’ombre) e Luc Besson (Lucy), sta seguendo un percorso autoriale di tutto rispetto.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Un ritmo serratissimo.
  • Gaia Weiss da una grande prova fisica e interpretativa.
  • Trasmette un senso d’angoscia e claustrofobia come raramente si era visto nel cinema recente.
  • Pecca in originalità perché ricorda molto Il cubo.
  • Qualcuno potrebbe non gradire l’epilogo.
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Valutazione: 7.5/10 (su un totale di 2 voti)
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