Tutti vogliono qualcosa, la recensione

Dietro una facciata squisitamente di genere, Tutti vogliono qualcosa (2016), ultima fatica di Richard Linklater, può a buon diritto definirsi una commedia d’autore. Ambientato in un campus universitario del Texas negli ultimi giorni di agosto del 1980, alla vigilia dell’inizio del nuovo anno accademico, il film ricalca stilemi e scrittura delle commedie generazionali dell’epoca, scegliendo il suo giovane ed efficacissimo cast tra volti già noti al pubblico televisivo e cinematografico contemporaneo: Blake Jenner (Glee), Zoey Deutch (Vampire Academy), Ryan Guzman (Pretty Little Liars), Tyler Hoechlin (Teen Wolf) e Glen Powell (Scream Queens).

La vicenda di Jake, matricola della squadra universitaria di baseball, subito iniziato dagli anziani del gruppo ai piaceri ludici della vita del campus, prosegue idealmente quella del fortunato terzo lungometraggio di Linklater, La vita è un sogno (1993), che aveva invece come sfondo l’ultimo giorno dell’anno scolastico 1975/76. I titoli originali dei due film sono, non a caso, mutuati da altrettante canzoni di gruppi simbolo delle rispettive epoche: Dazed and Confused, dei Led Zeppelin, ed Everybody Wants Some!!, dei Van Halen.

tutti vogliono qualcosa

C’è, anzitutto, un dato autobiografico dietro questa parabola cronologica, che aggiunge l’autenticità della nostalgia alla fedele ricostruzione d’epoca: texano, classe 1960, Linklater era appunto liceale nel 1976 e universitario nel 1980. L’unità di tempo – in questo caso dilatata su quattro giornate dal lungo conto alla rovescia verso l’inizio delle lezioni – è sicuramente un topos del film generazionale anni ottanta – basti citare due classici di John Hughes come il serioso Breakfast Club (1985) e il frizzante Una pazza giornata di vacanza (1986). Ma è anche una cifra inconfondibile dell’opera di Linklater e, in particolare, dei suoi ritratti di una giovinezza sospesa – a volte apparentemente all’infinito – sulla soglia dell’età adulta: si pensi a due tra i suoi primi film, Slacker (1991) e SubUrbia (1996), ritratti di sapore indie della generazione X nella provincia texana, ma anche alla celeberrima trilogia romantica composta da Prima dell’alba (1995), Before Sunset – Prima del tramonto (2004) e Before Midnight (2013).

Anche nel caso di Tutti vogliono qualcosa, torniamo, insomma, a qualche anno di distanza, a verificare, attraverso il racconto di un momento breve e puntuale, come sta procedendo la storia. Diversamente dal monumentale romanzo di formazione Boyhood (2014), girato nell’arco di dodici anni, questa non è però una storia individuale, né di un gruppo di personaggi, ma il percorso collettivo di un’intera società.

Tutti vogliono qualcosa

Il regista e sceneggiatore sceglie un registro comico in stile National Lampoon, mettendo al centro dialoghi tanto più banali quanto più fulminanti. Addolcisce un immaginario di genere prettamente maschile con l’immancabile storia d’amore e recupera ai margini un altro suo vecchio interesse, il baseball, già al centro della commedia sportiva Bad News Bears (2005) – a sua volta remake di Che botte se incontri gli “Orsi”, un successo di pubblico datato ancora 1976.

Con cura degna dei più blasonati period drama televisivi, Linklater scandaglia l’intero spettro dei gusti musicali – e delle relative sottoculture – del 1980, passando, di locale in locale, dalla tarda discomusic, al country in stile Urban Cowboy (1980), al punk, per concludere il tutto con una festa underground al sapore di halloween.

Ma più che nel look – e più che in una gioiosa promiscuità ancora ignara del pericolo dell’AIDS – è dai dialoghi che emerge lo spirito del tempo: i rapporti tra i molti “maschi alfa” del gruppo hanno sempre la forma dello scherzo, ma la sostanza della competizione; lo straordinario spirito di gruppo che li lega è solo l’esito di un individualismo profondo.

Tutti vogliono qualcosa

La tarda estate del 1980 è il primo giorno di scuola del mondo che oggi è diventato adulto: ce lo ricordano anche, inquadrati di sfuggita, i banchetti elettorali di Jimmy Carter e Ronald Reagan, precursori, nello stile comunicativo come nella linea politica, della prossima battaglia fra Hillary Clinton e Donald Trump. L’immaginazione sessantottina ha perso la sua battaglia per il potere, sconfitta dalla postmoderna supremazia dell’immagine: l’unico reduce in scena della cultura hippie (Wyatt Russell) è un trentenne che si rifiuta a oltranza di crescere, fino a falsificare i propri documenti d’identità. Anche la frase di presentazione scritta alla lavagna dal professore di storia, nella scena finale, non suona più come un grido di ribellione, ma come il vangelo motivazionale di un manager: i confini sono dove noi scegliamo di fissarli. Senza compiere il peccato capitale dello spoiler, vi invitiamo a riflettere sulla reazione del protagonista a questa frase, perché in quella reazione c’è molto del senso di tutto il film.

Enrico Platania

PRO CONTRO
L’omaggio alla commedia generazionale anni ottanta è svolto in maniera divertente e personale. Citando un noto film parodistico, non è un’altra stupida commedia americana. Per apprezzare fino in fondo un omaggio a un genere “classico” bisogna prima aver conosciuto e apprezzato quel genere.
VN:R_N [1.9.22_1171]
Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
VN:F [1.9.22_1171]
Valutazione: 0 (da 0 voti)
Tutti vogliono qualcosa, la recensione, 7.0 out of 10 based on 1 rating

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.