Un’altra vita – Mug, la recensione

Siamo abituati a vedere la famiglia come l’ambiente ideale in cui crescere e prepararci alla vita che ci aspetta una volta diventati adulti. Probabilmente è un retaggio del secolo scorso o un claim pubblicitario elaborato da qualche geniale mente creativa a Madison Avenue, ma la realtà dei fatti è molto più complicata di così.

Tra le mura domestiche molto più spesso si crea un organismo patogeno che non fa altro che imbrigliare e sopprimere le potenzialità dei suoi membri. Jacek (Mateusz Kościukiewicz) è un figlio di una piccola cittadina dell’estrema provincia polacca e gli basta amare soltanto l’heavy metal, la propria ragazza e il proprio cane per avere addosso l’etichetta del bizzarro e del diverso. Se la comunità in cui qualcuno come Jacek vive ti accetta, le cose possono anche andare bene. Quando l’ordine “naturale” delle cose cambia anche solo per un incidente fortuito, gli anticorpi sociali si mettono in azione inesorabilmente.

Dov’è la libertà di ognuno di realizzare la propria esistenza in autonomia? La regista Małgorzata Szumowska lascia di sicuro allo spettatore la risposta a questa domanda, ma l’oppressione del singolo al cospetto della tradizione e della normalità è palpabile e si traduce senza mezzi termini nella realizzazione della più grande statua di Cristo del mondo. I valori che dovrebbero fare da guida all’essere umano si sciolgono come neve al sole davanti alla realtà delle cose, creando una frattura insanabile nel povero protagonista.

Non è soltanto un attacco all’ipocrisia o al bigottismo, è un rimando estremamente preciso alla crisi della libertà individuale a causa di tutto men che meno dell’individuo stesso. La sfortunata sfigurazione del protagonista è un pretesto per sottolineare come basti essere diversi anche semplicemente nell’aspetto fisico per soffrire di un isolamento sociale più o meno conscio. I rapporti cambiano, gli affetti cambiano quando invece la persona che subisce il trapianto facciale ha solamente cambiato involucro, non il proprio spirito.

C’è qualcosa di estremamente disturbante in Mug, parzialmente edulcorato dal black humour scelto dalla regista e dallo sceneggiatore Michael Englert. Sicuramente c’è di mezzo l’eccezionale trucco del protagonista realizzato con precisione da Waldemar Pokromski, che hanno reso allo stesso tempo Jacek irriconoscibile e uguale alla sua versione pre-incidente in maniera molto grottesca.

La sensazione però è che se gli elementi metaforici di un film distante fisicamente dal nostro cantuccio fossero stati sostituiti con altri altrettanto significativi ma vicini, il risultato sarebbe cambiato di pochissimo. Questo vuol dire che c’è qualcosa di universalmente sbagliato tanto in Polonia che nel resto del mondo e che, con un ridottissimo margine di errore, spesso siamo noi stessi.

Andrea De Vinco

PRO CONTRO
Il lavoro sul e del protagonista. Troppi personaggi secondari.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Un'altra vita - Mug, la recensione, 7.0 out of 10 based on 1 rating

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